mercoledì 10 ottobre 2012

Punk Islam & Kurdistan

Notte. Ankara.

La bottiglia d'acqua e' troppo lontana per arrivarci. Urge uno sforzo, non ne ho la forza. Questa sera non ho voglia di fare niente.
CCCP al computer, clacson e fischietti di polizia fuori in strada. Brusio continuo che ormai anestetizza il cervello. Un taxi si scontra contro un'auto proprio sotto la mia finestra. Ad Ankara guidano tutti come pazzi.

5 settimane ma non ricordo un momento di riposo, di silenzio, di solitudine. Adesso per fortuna l'ho trovato. A Prato ne avevo di piu'.
Rido. Penso che forse sono uno stupido.

Nel cuore della Turchia, circondato dal niente ad ascoltarmi i CCCP. Ma si, la bottiglia non e' poi cosi' lontana, facciamo questo sforzo.

Il grigiore di Ankara mi rilassa. Il suo silenzio fatto solo di macchine che corrono veloci e turchi che parlottano camminando in fretta mi da' sicurezza. Non e' come a Istanbul sempre cosi' piena di musica, suoni, colori, rumori, stranieri, turisti, please mister come in, suoni di tamburi e cori di spettatori entusiati.
Qui ad Ankara regna un silenzio grigio, fatto di gente sempre indaffarata tra palazzoni del governo e sporchi vicoli puzzolenti di pesce. Ankara non e' una splendida citta'. E' semplicemente una creazione voluta da Kemal Pasha, detto Ataturk ("Il padre dei turchi") per spostare il potere economico e politico da Istanbul verso il centro dell'Anatolia.
Fino agli anni 20 Ankara era semplicemente un miserabile villaggio di contadini, povero ed arretrato come tanti altri sperduti qua e la' nelle infinite e solitarie campagne turche. Era giusto un pochino piu' famosa per gli allevamenti di capre dal quale prende il nome la pregiata lana d'angora. Ma tutto era miseria e case in fango, niente di piu', niente di meno. Poi Ataturk l'ha trasformata in questa grande e moderna citta' che e' oggi, con i boulevard larghi e pieni di fontane, i grossi parchi e le immense piazze. Sembra un incrocio tra Tien An Men e Mosca. Ma molto piu' bella e pulita, moderna e rilassante. Le strade in salita dei quartieri universitari mi ricordano le stesse di Helsinki. Anche la sera, poco prima dell'ora di cena, quando le tenebre calano e la citta' si illumina di mille fantastici colori al neon, mi sembra di essere ancora nella capitale finlandese. E' strano anche perche' non ci potrebbero essere due mondi totalmente opposti e diversi, due citta' e due popoli uno agli antipodi dell'altro. Ankara non ha niente di interessante da vedere ma non e' brutta. E' semplicemente una grossa, bella citta' moderna dove e' piacevole camminare tutto il giorno.

Joao mi diceva che dopo Istanbul comincia il niente. Ed e' vero. Dopo la periferia della periferia della periferia della quinta citta' piu' grossa del mondo, comincia la vera Turchia: comincia il niente fatto di campagne desolate e piccolissimi villaggi lontani e isolati l'un l'altro. Tutto in mezzo il niente, il silenzio, colline e valli deserte.
Come un incantesimo, dopo centinaia di kilometri, Ankara appare dietro una collina e sembra non finire mai...all'improvviso, dopo oltre duecento kilometri di niente le valli e le colline fino ad allora immote e silenziose si riempiono di fittissime case e palazzi come dei grossi pandori farciti. Una citta' immensa che scorre sui fianchi di numerose colline, le scavalca e continua oltre, senza sosta. Senza fine. Perche' i grattacieli e gli enormi palazzi sono scarsi. Non e' come Pechino dove in 10 palazzoni sono concentrate 40.000 persone e la citta' vista dall'alto appare relativamente piccola, con i suoi 30 milioni di abitanti. Qui le case son tutte basse: e' per questo che le citta' turche sono ancor piu' immense di quanto gia' non lo siano nei numeri. Ankara non sfugge a questa struttura. Eppure e' grossa soltanto un decimo di tutta Istanbul, forse la citta' piu' grande del mondo per estensione urbana.

Oltre la citta', di nuovo il niente. Altri 200 km o piu' di silenzio prima di incontrare altri piccoli panettoni farciti di case sui loro bordi, sulla cima, tutto attorno come zucchero candito sparso alla loro base. Poi ancora il niente per altri 200 o piu' kilometri, poi ancora una macchia immensa e solitaria. E poi ancora il niente un'altra volta per altre centinaia di kilometri e un'altra citta' che spunta all'improvviso...e cosi' via fino ai confini di questo grande paese: a nord verso Azerbaijian e Armenia, ad est verso l'Iran e a Sud verso Iraq e Siria. Tanto grande quando solitario.

Yilmaz e' curdo. Del nord, vicino all'Azerbaijian. Anche il suo socio e' curdo, Del sud, verso la Siria.
Entrambi vivono e lavorano dentro uno splendido locale in pietra nel gran pazaar di roba antica, nel cuore vecchio e cadente della citta', ai bordi di una delle tante colline. In quel che rimane del vecchio villaggio di contadini, tra le sue stradine anguste delimitate da muri di pietra e fango si estende il dedalo del pazaar della roba usata...anche i negozi sembrano roba usata stessa....grosse stalle o cantine adattare e riempite di ciarpame fino all'inverosimile, affascinanti quanto sporche, buie e illuminate solo da quella bella luce artificiale che filtra quando i raggi del sole attraversano i tetti  di plastica trasparente.
Il negozio di Yilmaz e del suo socio e' semplicemente una meraviglia e non ho ancora capito quante stanze ci siano. Dietro una tenda c'e' un'altra stanza sepolta nel buio, forse anche di piu'; attraversato un piccolo arco basso ci sono altre due stanzine sulla sinistra e due o tre sulla destra nelle quali e' difficile arrivare da tanta roba che c'e' per terra: dischi, videocassette, cd, poster e locandine dei cinema anni 70, bottiglie in vetro, lampade, bambole, scatole di accendini e polverosi scrigni di legno...
la stanza principale, che sembra la grotta di Ali Baba e' tappezzata di arazzi e tappeti, il tetto di plastica trasparente e' trapuntato di vecchi 45 giri e il grosso palco/altare sulla destra, creato accanto al tronco di un grosso albero che fora il soffitto e' adobbato con grazia tipicamente meriorientale di tutto quello che si trova sparso in giro per le stanze. Si entra da uno stretto e lungo corridoio pieno di poster di film, scaffali e altri poster ancora attaccati qua e la. L'entrata nella stanza/grotta principale e' da favola: Yilmaz seduto sulla sua poltrona in velluto rosso accoglie i clienti offrendo loro te' caldo sul piccolo tavolino foderato, mentre accanto il giradischi suona un vecchio gruppo folk turco di 30 anni fa. Seduti su altre piccole poltroncine vellutate non si puo' fare a meno di respirare l'aria di magia e di antico che emana da ogni misterioso anfratto. Prima della sala centrale ho visto altre due o tre stanzette separate da una tenda ma non son sicuro se ne esistano delle altre. Nella sala, oltre al grosso palco adornato  di poster, cd, libri, cassette, bambole, gioielli (inutile contare quanti siano.......e' impossibile) dal quale parte il tronco di un grosso albero che buca il tetto, c'e' anche una misteriosa stanzina rialzata dietro la poltrona di Yilmaz....dice che e' il bagno ma secondo me esiste anche qualcos'altro.

Yilmaz e' curdo e l'ho capito fin da quando ho visto poster di Yilmaz Guney dappertutto. Non ci vuol molto per capire e fare due piu due. Chi ama Yilmaz Guney ama la verita' e la giustizia sociale. Chi ama la giustizia sociale spesso e' il povero, il contadino, l'oppresso, lo sfruttato, il servo della gleba. I curdi spesso sono tutte queste cose insieme. O perlomeno lo sono stati fino a non molto tempo fa.

Yilmaz Guney era giovane quando comincio' nei primi anni '60 a scrivere poesie e canzoni, i primi articoli di denuncia dell'arretratezza feudale delle campagne turche e curde in particolare, i primi film come attore.
Un personaggio scomodo che piano piano acquista popolarita' tra la gente povera, i diseredati, i contadini servi della gleba e della religione della Turchia anni '60. Soprattutto diventa l'eroe e il beniamino dei curdi di cui comincia ad interpretarne i sogni, i drammi e le faide secolari. Nei film prima come attore e poi come regista incarna l'Efe, il contadino pecoraio dei monti che spesso deve compiere spietate vendette di sangue nei confronti di feudatari spietati, capo di banditi che passano l'inverno sui monti innevati della Turchia orientale in attesa di compiere la vendetta verso chi ha disonorato la moglie o rubato il gregge di poveri contadini disperati. Il Kurdistan di Yilmaz Guney non e' tanto diverso dal Far West immaginato dagli italiani: eroi solitari e silenziosi, avvezzi a lunghi inverni solitari passati a meditare la vendetta, fucile in mano e guanti bucati sulle dita pronti a far fuoco contro oppressori, tiranni locali e rivali d'amore. Con la differenza che le storie degli Efe sono storie vere, sono testimonianze di un mondo feudale ed arretrato che ancor oggi sopravvive in larghissime parti della Turchia curda.
Col tempo Guney  interpreta personaggi costretti ad emigrare nella grande citta' (quasi sempre Istanbul) e costretti a venire a contatto con la malavita per sopravvivere e mantenere la povera famiglia. Il codice d'onore dei curdi e la dura esistenza temprata dalle campagna spesso fanno si che da contadino emigrante, Gunety piano piano divenga piccolo boss di quartiere, magari a Kasim Pasha o nella Kadikoy ancora arretrata e semicontadina. Anche qui il finale e' sempre tragico.
Nel frattempo Guney si fa i primi 2 anni di carcere per istigazione all'odio sociale e propaganda comunista: comincia a diventare un personaggio scomodo, conosciuto e odiato dalla classe politica perche' ha il coraggio di parlare di poverta', arretratezza, ingiustizie sociali ed il popolo povero, il popolo delle campagne o degli emigrati in citta' lo ama quasi come un Dio.
Dal carcere continuera' a scrivere e dirigere i film in modo clandestino, passando i fogli della sceneggiatura ad amici suoi che lo vanno a trovare ed hanno l'incarico di dirigere fedelmente secondo le sue direttive.
Viene scarcerato in una amnistia politica nel 1969 ma due anni dopo verra' condannato ad altri 3 anni sempre per motivi politici. Scontata la pena, verra' condannato ad altri 19 anni di carcere per aver ucciso un giudice. Passera' il resto della sua vita in carcere, dal quale continuera' a dirigere e scrivere sceneggiature sempre piu' profonde e pregne di un realismo sociale poetico e drammatico.
Il suo film piu' bello, Yol ("La strada"), sara' l'ultimo che dirigera' dal carcere, la storia di 5 detenuti curdi ai quali viene data la semiliberta' per due settimane. Il film segue le vicende di ognuno di loro che con autobus, treni, carretti, a piedi nei gelidi inverni curdi cercheranno di raggiungere ognuno il proprio villaggo natale per passare poche ore con i cari. E' il dramma di 5 reietti in quella Turchia spaventosamente arretrata che Guney chiamera' "un carcere aperto con 45 milioni di detenuti". Bellissimo e commovente e' forse il suo atto di protesta piu' sincero nei confronti di un paese, la Turchia e non solo il "suo" Kurdistan che deve avere l'obbligo morale di liberarsi dalle catene del feudalesimo religioso e rurale. Riuscira' ad evadere nel 1982 all'eta' di 47 anni, portando con se i negativi del film prima in Svizzera e poi a Parigi dove si rifugera' in clandestinita'. Lo stesso anno avra' l'onore di vincere la Palma d'Oro a Cannes e di ricevere riconoscenza internazionale per i suoi film considerati capolavori assoluti di neorealismo sociale. Ma la gioia durera' poco. Neanche 3 mesi dopo morira' di cancro all'eta' di soli 47 anni, subito dopo le riprese di "Durvar", il suo ultimissimo testamento cinematografico, dopo 13 anni passati in carcere, oltre 200 film interpretati come attore e 25 come regista nei brevissimi periodi in cui non era incarcerato, a testimonianza della sua intensissima attivita' come uomo nel vero senso della parola.

Qui al bazaar di cose antiche, in questi ripidi vicolini dai muretti in pietra e dalle miserabili casette in fango sventrate e diroccate, tra i dedali della antica Angora dove tempo sembra non passare mai , tra vecchi alberi d'ulivo che spuntano dai tetti di abitazioni ormai abbandonate da decenni, le foto di Yilmaz Guney sono dappertutto, negli stretti pertugi di una bottega o sui muretti polverosi, incorniciati sopra la poltrona di un rigattiere o timidamente nascosti dietro montagne di videocassette. Un vecchio videotecaro ha quasi 4000 film in vecchissime videocassette turche dei primi anni 80: coperte di polvere nera e antica, Agit e Seyyit Han   sono in bella mostra davanti a tutti. Qui tutti son curdi e sono fieri di lui.
Il primo giorno che sono andato ho visto la sua foto in un buio anfratto...la prima delle tante che avrei scoperto poi in tutti i giorni successivi, nascoste qua e la.

"Yilmaz Guney!" ho esclamato!

Un uomo con un bel sorriso gentile, dalle manone grosse grosse e dai baffi bianchi mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha guardato con i suoi occhi profondi, felici e onesti....

"Adam! adam!" mi ha detto stringendomi la mano e indicando fiero col volto quella vecchia foto scolorita di un attore dal viso sofferto e dalla barba incoltra, coi capelli scarruffati e gli occhi che emanavano fiamme.

Adam significa "Uomo". Uomo vero.

Da quel giorno, ogni giorno, molti al bazar mi salutano e mi offrono sempre un po' di te' caldo.




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