mercoledì 6 giugno 2012

Anno 2138, 25° anno del 17° ciclo, l’anno della lepre di metallo nel ciclo del Rab Rgyan


Capitolo 1 – Anno 2138, 25° anno del 17° ciclo, l’anno della lepre di metallo nel ciclo del Rab Rgyan. E’ già sera.

La porta di legno si spalancò all’improvviso e sulla soglia rimase una figura alta, scura, indefinita, avvolta in un pesante cappotto militare di tipo cinese: un berretto di lana grezza gli scendeva fin quasi sugli occhi. Era li che ansimava incerta se entrare o no mentre gelide raffiche di vento cercavano di farsi spazio ed entrare anch’esse nella piccola locanda. Mosse impercettibilmente lo sguardo verso destra, dove notò alcune donne sedute a un tavolaccio di legno, avvolte nei loro bei costumi tradizionali ed intente a bere un pò di tè...due erano di spalle, l’altra di fronte, chiara, precisa, con lo sguardo basso mentre sorrideva e parlava sottovoce con le compagne senza dare troppo nell’occhio. La misteriosa figura sembro’ confortata da quella visione di apparente tranquillita’. Allora si decise, entrò e sigillò ben bene la porta con la trave di legno.

“Wo yao chi fan”, “voglio mangiare” disse con tono deciso, senza guardare in faccia il padrone appena affacciato dalla piccola cucina, poi si tolse i guanti velocemente e altrettanto rapidamente si diresse verso la stufetta posta nell’angolo vicino alla finestra dove – con un profondo sospiro di sollievo – lasciò le mani ad affumicare sopra bollenti nuvole di vapore. Un breve sorriso solcò la sua pelle paonazza, sfregiata dal vento e dalla sabbia che si era tutta impastata nella barba ispida ma fu solo un fugace accenno e il suo volto tornò a sembrar come scolpito nella pietra: troppo doloroso ancora muovere i muscoli intorpiditi, storditi da quel gelo maligno e lacerante che da queste parti non cessa mai di martoriare i corpi.

Altri lunghi attimi di silenzio, movimenti lenti, lentissimi, misurati che piano piano cercavano di diventare piu fluidi senza concedere troppo alla fretta e al dolore: le dita cominciarono ad accarezzare dolcemente le nuvole di fumo che sembravano comporre una invisibile sinfonia nell’aria calda e profumata che emanava dal pentolone dove cuoceva un minestrone di verdure - i piedi cominciarono a battere sul pavimento per riprendere sensibilità, lo sguardo vagava a destra e sinistra per ubriacarsi di immagini e di tepore domestico. Colori, dipinti di divinita’ buddhiste, povere foto e miseri tavolacci, pareti umide e scrostate appena spruzzate di un azzurrino spento e addobbate qua e la di immagini paradisiache di paesaggi fatti col photoshop, travi e architravi in legno ormai in gran parte ricoperti dalla grigia patina del tempo, la tv sempre accesa su un generico canale che trasmetteva uno show cinese e la tendina sudicia e tutta consumata che separava la saletta dalla cucina: tutto sapeva di così familiare, di già provato tanto tempo prima. Solo il calendario proponeva qualcosa di nuovo: dopo una prima rapida occhiata e dopo una più lunga dove si premurò di aver letto bene, lo straniero si accorse che era cominciato il nuovo anno: il 2138, il 25° anno del 17° ciclo, l’anno della lepre di metallo nel ciclo del Rab Rgyan. Doveva essere cominciato da poco, pensò e se ne rallegrò: “Bene, la lepre è il mio segno, questo sarà il mio anno fortunato dopo tutti questi casini”, pensò e finalmente riuscì a sorridere senza sentire più dolore. La vita sembrava tornare a scorrere nel suo corpo.

“Xin nian kuai le”, “Buon anno” disse allora al padrone che era ancora li fermo a pochi passi e che lo stava guardando in attesa che il nuovo cliente si fosse sentito finalmente a suo agio. I due incrociarono gli sguardi e si fissarono negli occhi in silenzio, senza dire una parola per un lungo, lunghissimo momento, fieri uno verso l’altro. Solo un impercettibile moto di sorriso sui loro volti altrimenti immobili fece infine intendere che si erano riconosciuti dopo così tanto tempo. Forse neanche si ricordavano quanto tempo fa si videro per la prima ed unica volta ma entrambi scossero la testa nel solito momento: non si erano dimenticati l’uno dell’altro. “Xin nian kuai le” gli rispose il locandiere.

Il padrone della locanda non aveva piu di 30-35 anni ma come tutta la gente di questi maledetti posti ai limiti del mondo, aveva ormai la pelle tutta scura, dura come un vecchio pezzo di camoscio, segnata dal vento gelido e dal sole crudo. Le rughe gli solcavano il volto come i ghiacciai quando spaccano i fianchi delle montagne. Era sporco e malvestito, e allo straniero parve che stesse indossando i soliti vestiti che indossava anche la prima volta che lo vide. Lo straniero si osservò per un attimo le mani: erano diventate anche a lui tutte gonfie e dure, rattrappite, nere e sporche come le sue dopo così tanti giorni in quelle lande dannate fatte solo di polvere, sassi e gelo. “Presto diventerò anche io così” pensò, tirando una bestemmia, e se le portò alla barba per pulirsela ma non provò assolutamente nessuna sensazione: allora bestemmiò nuovamente e sputo’ in terra, poi si voltò ad osservare le donne che continuavano a starsene li a spettegolare sottovoce col capo chino e la schiena curva lanciando ogni tanto sguardi curiosi. Tiro’ su di naso e sputo’ sul pavimento di terra battuta, infine col piede ricopri’ con la sabbia.

“Zuo ba” rispose il locandiere sorridendo indicando un tavolo a cui sedere “Ni yao chi shenme?” “Cosa vuoi mangiare?”...ma lo straniero non rispose e preferi’ continuare a sprofondarsi sul comodo divano che girava tutto intorno alla stufetta...era morbido, con i cuscini di velluto rosso e fatto di legno giallo riccamente ricamato con draghi, guerrieri, figure e intarsi multicolori che sembravano non finire mai ed – anzi – sembravano moltiplicarsi ogni volta che lo sguardo si posava su un punto preciso: le nuvole di vapore che venivano su allegramente dalla stufa sembravano confondergli ancora di più la vista. Rimase cosi’, senza dire una parola e cominciò ad osservare meglio attraverso quelle nuvole di fumo e gli parve allora che quelle piccole figurine scolpite nel legno avessero preso vita e stessero combattendo tra di loro. Il suo sguardo allora si perse in mille immagini fantastiche sospese tra fantasia e realtà – il viaggio, le cose che gli erano successe, il semplice fatto di essere nuovamente li in quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini - e cominciò a sorridere tra se e se a occhi semichiusi per tutta questa bizzarra galleria di sensazioni ed emozioni che dopo tanti giorni finalmente erano libere di scatenarsi...pensò a Lhasa che sembrava ormai così distante, rivedeva i terribili precipizi senza fondo lungo i quali aveva corso per giorni e giorni, gli sconfinati spiazzi desertici e polverosi immersi nel silenzio piu assoluto, gli tornarono in mente anche le profezie fatte prima di partire da Kathmandu e la sinistra visione della Kumari ed adesso era nuovamente li, proprio dove voleva arrivare, per trovare rifugio e per rivedere lei, per sentire ancora il suo buon odore intenso di tibetana, godendo della buona tazza di te nero appena ricevuto li accucciato su quel morbido divano traballante mentre le pagnotte di escrementi di yak bruciavano allegramente portando un pò di calore e profumo dentro quella misera locanda: alla fine, vinto dalla stanchezza e dall’emozione si lasciò incantare dalle misteriose immagini colorate nascoste dal fumo e, ben presto, chiuse gli occhi e si addormentò. Gli parve anche di vedere delle figure uscire dalla cucina, gli parve di vedere anche lei, col solito giubbotto aperto e la sciarpa tutta attorno al collo ma a quel punto ormai non sapeva più se stava sognando o cos’altro.

Quando si risvegliò era ancora notte fonda ma non sapeva dire con precisione che ore fossero: da queste parti il sole cala sempre troppo presto e sempre troppo tardi rispunta fuori dalle altissime montagne che circondano la valle solitaria. Pensava che fosse ancora notte fonda perchè fuori era tutto silenzio ma da queste parti c’è sempre silenzio: ci pensa il vento gelido a portare via qualsiasi rumore e coprire tutto con le sue urla, in ogni momento, questo gelido vento maledetto che spazza sempre via tutto e lascia solo il proprio sibilare a riempire questa desolazione assoluta.
Per lunghi attimi rimase ancora stordito, non gli riusciva capire bene dove fosse e cominciò a guardare la stufa e il divano di fronte e si stupì di non essere più a casa sua, in Italia. “Ma dove...” non finì neanche di pensare che notò una figura seduta proprio davanti, un po’ spostata sulla sinistra e vide le gambe fino alle ginocchia, notò dei calzini un tempo bianchi e delle scarpe da ginnastica vecchie e sporche, poi alzò lo sguardo e rimase ancora più stupito. Era lei.


Capitolo 2 – La visione alla gonpa

“Ti stavo aspettando” gli disse finalmente il locandiere mentre lo straniero sorseggiava una tazza di chai nero bollente che gli aveva portato Kama, la ragazza.
“Mi stavi aspettando?” chiese sorpreso staccando le labbra dal bordo della tazza.
“Si, mi avevano annunciato che saresti venuto qua”
Lo straniero getto’ con violenza la tazza per terra e si alzo’ di scatto in piedi guardando il suo amico con occhi minacciosi e allarmati.
“Chi ti ha detto che sarei venuto qui?”
“E’ stato il vento” rispose il locandiere con un sorriso, per tranquillizzarlo. “Il vento ci porta tante notizie. Basta saperne riconosce la voce”
Lo straniero sembro’ rilassarsi per un attimo, poco sorpreso di quella strana risposta ma ancora sembrava non del tutto convinto.
“Il vento potrebbe sibilare anche agli orecchi di altri” disse allora lo straniero con tono tra il distaccato e il sospettoso guardando in direzione della finestra, cercando di scorgere qualcosa attraverso quei vetri sudici, ma tutto, fuori, era avvolto nelle tenebre. Il locandiere sorrise.
“Guarda la’ fuori...ci sono soffi di vento che vengono da nord e altri che vengono da sud. Qualcun’altro sembra venire dal fiume e qualcun’altro dal ventre stesso della montagna, altri vengono da chissa’ dove. Ed ognuna di queste e’ una voce che racconta cosa succede al di la’ di questa valle sperduta tra gli alti monti. L’altro giorno io ero seduto lassu’ sulla cresta a meditare ed offrire doni e incenso alla Dea Lakhsmi. Ad un certo punto una raffica piu’ forte di tutte le altre ha cominciato a girarmi tutto attorno e sollevare le bandierine di preghiera che avevo portato con me per attaccarle al chorten del Piccolo Passo, quello lassu’ sopra la vallata dalla quale si puo’ vedere l’ansa del fiume, ti ricordi? Il vento mi aveva accerchiato e sollevava tutto. Ad un certo punto una bandierina gialla mi colpi’ in faccia e quando riuscii ad afferrarla, lessi una preghiera che non avevo scritto io. Diceva: accogli l’amico che cerca riparo e forniscigli cibo e aiuto perche’ la sua strada sara’ ancora lunga e tortuosa. Proteggilo dai nemici come fosse il piu’ prezioso dei tuoi tesori e porta una candela in piu’ per chiedere la benevolenza degli Dei”
Poi il vento me la strappo’ via di mano e volo’ lontano: non l’ho piu’ rivista ma dal Piccolo Passo si sentiva salire su come un lamento, un grido di aiuto sempre portato dal vento. Allora la mattina dopo sono tornato con un’altra candela di burro di yak e l’ho accesa dentro la piccola gonpa del Loto Solitario. La sua fiamma sembrava brillare di vita propria ma ogni tanto il vento soffiava fortissimo quasi volesse spengerla. Io ho cercato di riparare quella fiamma alta e bella, la candela sembrava non consumarsi mai ed era cosi’ luminosa dentro la buia gonpa che sarebbe stato un’offesa agli Dei permettere che il vento la vincesse. Con il tessuto del mio fagotto ho coperto la stretta entrata della gonpa e cosi’ facendo ho pensato di aver fatto una buona azione. Da fuori la luce della fiamma sembrava aver acquistato ancor piu vigore ed io allora fui convinto di aver operato bene per l’amico che gli Dei mi avevano chiesto di aiutare”

“Allora tu sai anche cosa e’ successo” gli chiese lo straniero, piu’ allarmato che sorpreso da quello strano racconto.
“So che viviamo tempi difficili per noi e per i nostri fratelli tutti” rispose il locandiere senza aggiungere altro.
“Gia’....viviamo tempi difficili” si limito’ a rispondere lo straniero, anch’egli senza aggiungere altro: si rinfagotto’ dentro il giaccone militare e torno’ ad osservare le nuvole di fumo che venivano dalla stufa.






3 – A Nyalam

La luce della mattina tarda sempre ad arrivare nella valle incassata tra altissime montagne ma quando il sole finalmente si affaccia oltre le alte creste, il panorama che si gode e’ talmente spettacolare che tutto, dalle case all’unica strada che scende giu’ fino al fiume attraversando il villaggio per poi risalire faticosamente fino alla Tibetan Road ai fianchi dei monti e persino le persone stesse che qui vi abitano, sembrano illuminarsi di una energia selvaggia e primitiva, libera e naturalmente felice come sospesa in un tempo immutabile e paradisiaco per quelle poche ore che questa magica atmosfera puo’ durare. Ma presto tutto questo torna poi ad essere avvolto da una grigia cappa fatta di tenebre, di nebbie maligne e grigio silenzio ghiacciato.
In quelle poche ore di luce e di sole il cielo e’ sempre incredibilmente terso, pulito, brillante, di un azzurro cosi’ sereno e quasi etereo da irradiare di felicita’ una natura altrimenti ostile, poverissima, fatta di niente, di polvere e di sassi. I fianchi nudi delle montagne emanano una maestosita’ silente e benevola, l’acqua del fiume a fondo valle brilla argentea e spumeggia sbattendo sui giganti massi franati dall’arido fianco del monte. I pochi colori della natura la mattina sembrano prendere vita: l’azzurro del cielo, il verde dei pochi arbusti e il bianco abbagliante delle cime perennemente innevate gioiscono per quelle poche, felici ore di luce purissima. Anche la vita nel villaggio sembra esplodere improvvisamente in mille colori, i colori dei costumi tradizionali tibetani, delle collane di turchesi, delle scarpe di feltro e dei cappelli a tre falde si mischiano col nero brillante dei capelli avvolti in splendide ruote ai lati della testa, al bianco smagliante dei sorrisi gentili e al cuoio annerito e bruciato dal sole delle facce allegre di questa gente. Come in un formicaio, brulicano in su e giu per l’unica strada in discesa del paese le figure eleganti, alte, snelle e profondamente belle dei tibetani: le donne paiono sempre un po’ grassocce infagottate come sono nei loro pesanti costumi di lana a sbalzi finemente ricamati e gli uomini sembrano sempre un po’ troppo effemminati con quelle gonne che scendono giu fino alle caviglie e i lunghi capelli raccolti in splendide trecce ora arrotolate tutto attorno alla testa, ora bellamente disposte a ruota dietro agli oreccchi, ora lasciate libere di svolazzare al vento.

Fu durante una di queste radiose mattine di inverno – piu’ o meno il nostro febbraio occidentale – che F si risveglio’ dal letto della locanda di Nyalam e si affaccio’dalla piccola finestra dabbasso per osservare la vivace attivita’ mattiniera della gente del luogo. Il sole illuminava ma non scaldava molto e non appena alzato si senti’ percorrere da un lungo brivido di freddo. Dopo un po’ torno’ su, nel soppalco dove era posto il grosso letto comune.
Kama era li, accanto a lui gia’ in piedi con una tazza fumante di chai tra le mani e sorrideva come sempre mostrando i denti bianchissimi. Vederlsela li davanti era una immagine dolcissima.
“Non dovresti farti vedere troppo in giro” gli disse mentre s’inginocchio’ davanti a lui per appoggiare la tazza su un piccolo sgabellino di legno posto accanto all’enorme letto dove dormiva con tutta la sua famiglia .
“In questo periodo pochi stranieri osano arrivare fin quaggiu’ e mai nessuno da solo. I cinesi qui hanno mille occhi e le notizie corrono veloci. Come il vento ha portato la notizia del tuo arrivo, esso puo’ portarla anche ad altre orecchie meno indiscrete delle nostre” continuo’ mentre, ancora inginocchiata cominciava a legargli le scarpe e assettargli il maglione di lana con cui aveva dormito quelle poche ore precedenti.
“Anche tu con questa storia del vento?” le chiese lo straniero, “va a finire che ci devo litigare con questo vento chiacchierone” le rispose ancora un po’ addormentato.
La ragazza continuo’ a sorridere nel suo volto rotondo e bellissimo e, postagli una mano sulla sua guancia, con l’altra comincio’ a pettinarlo dolcemente, con calma.
Lo straniero si senti’ percorrere da un lungo brivido caldo al suo contatto e l’odore intenso della ragazza lo attirava tantissimo. Mano a mano che lei continuava a pettinarlo, le sue dita cominciavano timidamente ad accarezzargli la barba.
“Tu devi credere a queste cose, Da Hai” sussurro’ Kama.
“Non chiamarmi Da Hai, qui non siamo in Cina, qui Da Hai non esiste!” le rispose seccato, interreompendola.
“Gli Dei ci hanno chiesto di aiutarti e noi non possiamo opporci alla loro volonta’” continuo’ la ragazza sorridendo e continuandolo a pettinare, incurante di quella brusca interruzione. Ormai gli si era gia’ seduta sulle sue ginocchia, la sentiva cosi’ vicina e continuava a sorridere lasciando che la mano dello straniero cominciasse ad accarezzarla dolcemente.
“Se tu sei arrivato qui significa che sei in pericolo e noi ti aiuteremo anche se questo potrebbe essere molto rischioso per noi, ma mio padre ha fatto giuramento agli Dei e non puo’ mancar meno alla sua promessa”
“Tu sai cosa ho fatto?” le chiese: ma ormai la sua mente e i suoi sensi stavano cominciando ad inebriarsi dell’odore intenso che emanava da quella bella tibetana . Kama non rispose e continuo’ a guardarlo sorridendo.
“Dimmi, da quanto tempo non ti lavi?’
“Io ho 21 anni e ancora non mi sono mai lavata” rispose la ragazza con un sorriso timidissimo e complice, abbassando lo sguardo, un po’ imbarazzata, un po’ orgogliosa: e fu solo a quel punto che appoggio’ il pettine sulla coperta e si inginocchio’ proprio davanti a lui, con le mani appoggiate sulle sue gambe.
“Noi tibetani possiamo stare anche tutta una vita senza lavarci, lo sai: ed io ancora non l’ho mai fatto, fa parte della nosta cultura”, aggiunse inarcando le sue labbra carnose e socchiudendo gli occhi, poi si risiedette sul letto accanto a lui e ricomincio’ a carezzargli il volto e lisciargli la barba. Il suo odore forte lo ubriacava e il cuore dello straniero batteva fortissimo. Comincio’ a sbottonarle i pantaloni di jeans consumati.
Si sdraiarono sull’enorme, morbidissimo letto comune tutto incassato tra alte sponde in legno, nel soppalco sopra la stanza della locanda...
“allora e’ arrivato il momento di lavarti, per la prima volta nella tua vita” e le tolse i pantaloni e con essi le mutande sporche che si portava addosso da chissa’ quanti anni.
.
“Quanti?” chiese la ragazza con un sospiro caldo mentre gli si aggrappava alle braccia, con gli occhi chiusi.
“Quattro, e se lo meritavano tutti”
“Quattro?”
“Si...e se avessi potuto, ne avrei ammazzati ancora di piu’...ma perche’ me lo chiedi? Sai forse qualcosa? Cosa sai?” provo’ a chiederle.

“Il vento...il vento che ti ha portato qui ci ha detto cosa ti e’ successo”
“Qui tutti sembrate sapere qualcosa...maledizione....alla fine l’unico che non ha ancora capito niente sono sempre io”
“La tua strada e’ ancora lunga e dolorosa, altro sangue dovra’ scorrere perche’ i nostri nemici sono tanti. Prega gli Dei perche’ hanno scelto per te un compito difficile”

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