lunedì 11 giugno 2012

Polvere e burro di yak

Il templio di Changmoche, Lhatse, non è nè più bello nè più brutto di tanti altri nel Tibet. E' buio e arredato con mille tanka coloratissimi che pendono dal soffitto come festoni, in legno sono i mobili e le credenze dove sono racchiusi migliaia e migliaia di statuette di Buddha sacri, così come in legno sono le lunghe panche dove siedono, dormono e pregano i monaci, tutti in fila davanti al trono di legno del Maestro del templio che col suo bastone fa suonare l'enorme tamburo annunciando la raccolta e la fine delle ore dedicate alla preghiera. In legno sono anche le scale e i corridoi e balaustre dei piani di sopra, inaccessibili a chi non è monaco ed infine è in legno tutto quanto il resto, mobili, librerie, leggii, i contenitori dei sacri tanka, i rotoli in pergamena con le preghiere sacre. Tutto è finemente decorato con incredibili, coloratissime figure dai sacri colori del Tibet: giallo, verde, blu, bianco e rosso.
Un forte odore di burro di yak fuso copre ogni angolo, anche il più buio e nascosto.
C'e' a chi non piace, per il suo forte aroma dolciastro e denso. Io me lo porto ancora nei miei ricordi.
Il bello dei templi tibetani è il buio che nasconde tutto e tutto fa sembrare così misterioso: ti avvicini al grande altare col Buddha centrale e scopri che dietro ci sono migliaia di statue di altri Buddha appoggiati su invisibili mobili, su piccoli capitelli e invisibili credenze. La profondità della sala sembra non avere più confini, tutto sembra moltiplicarsi all'infinito.



Nel silenzio sacro il burro di yak brucia e si spande nell'aria. Qualche ombra sfuggente passa in lontananza, timida e furtiva.

E' novembre, un novembre caldissimo e soleggiato quando siamo arrivati a Lhatse, terzo giorno di viaggio sulla strada che da Kathmandu portava a Lhasa.

Ricordi.
La città nuova è sempre, ostentatamente cinese. Negozi cinesi, mercanti cinesi, ragazzi cinesi negli internet point, prodotti cinesi, musica cinese, fiche cinesi, alberghi cinesi. E come ogni villaggio di insediamento cinese, le vie sono brutte e tutte uguali. Polverose, scassate, sporche e piene di quei palazzoni quadrati dai grossi fondi al pianterreno - o magari rialzati giusto 2 o 3 gradini rispetto alla strada - che sono sempre tutti uguali, delle stesse dimensioni ed ospitano file interminabili di negozi anche loro sempre tutti uguali. C'era una ragazza bellissima, coi riccioli neri e il nasino all'insù, culo bellissimo fasciato da jeans corti e stretti. Di fronte il solito via vai cinese davanti ai soliti negozi cinesi.

Fuori dal paese una strada porta al monastero di Lhatse Chode, situato in alto, sul fianco di un monte polveroso e aridissimo, poco oltre un piccolo ponte che attraversa un impetuoso torrente. Questo torrente non so se è il Brahmaputra, il fiume sacro degli indiani, ma passa anch'esso proprio da questa valle. Forse è lui, forse un suo affluente. Nel monastero abitano solo donne e il silenzio che vi regna è ancor più etereo, spettrale.


Piccole casette con la parete a strapiombo sul fianco della montagna raccontano tutta la semplicità di questo popolo. Eppure la strada che vi arriva, pochi km fuori dalla moderna parte cinese della città è quanto di più bello e silenzioso, elegante e ricco per gli occhi che la cultura tibetana possa offrire come abitazione. Camminare lungo queste vie silenziose mette pace e tranquillità. Ogni casa è dentro una corte circondata da un muro di fango e pietra pitturato di bianco, nel quale si aprono portoni in legno rosso finemente ricamati, con architravi che sorreggono tettini in legno e festoni colorati.



Sopra il monastero femminile di Chode si erge la vecchia fortezza abbandonata e distrutta dalle truppe cinesi. Tutto è polvere e fango essiccato, aridità e vento. Camminare sul fianco del monte non è facile e la fortezza cade in rovina. Ne rimangono solo le mura esterne che - come tutte le opere di difesa militare cinesi, seguono     l'andamento della cresta delle montagne.


Vento e bandierine che si staccano e volano via, a volte vicino a volte lontane, molte volte dentro il letto del fiume, facendolo sembrare quasi una brutta discarica a cielo aperto.

Di la dal colle, sotto i nostri occhi, c'è la Lhatse vecchia, quella tibetana delle casette in fango e delle pagnotte di escrementi di yak impilate fuori dalla porta, per l'inverno, per il fuoco, con ne finestre bordate di nero a forma di trapezio, tipiche di tutte le abitazioni tradizionali.
Stradine strette, fangose e polverose immerse nel silenzio assolato di un pomeriggio di novembre, indolente, caldo e apatico.

Dopo aver fatto tanta strada, dalla cima del monte dove c'e' la fortezza, si scopre che il templio di Changmoche è proprio sotto, la dove si snodano i vicolini stretti della Lhatse vecchia, tibetana....ma la città cinese è vicinissima, tutto a diritto del viale del templio. Sembrava più lontana, invece è arrivata già qui.

In piccolo spiazzo sterrato fuori dal portone del templio  c'e' un divano, proprio davanti a una casetta di fango dalla solita entrata bassa. Accanto al divano c'è un tavolino ed un grosso ombrellone verde tutto sporco e rattoppato.
Mi son seduto li a fumare una sigaretta e bere una birra cinese e poco dopo mi sono addormentato, sotto i raggi di un sole caldo, invitante.

Pensavo a quanto era bello e silenzioso il templio, pensavo al dolve profumo del burro di yak e agli ooom che si sentivano intonare da qualche stanza sconosciuta di quel misterioso, labirintico luogo.

Pagnotte di escrementi di yak belle accatastate una sull'altra appoggiate ai muri di ogni casa, sorrisi di gente indaffarata e contadini che camminano piano nei loro lunghi sottatoni ricamati, i chuba.

Pensavo anche a Tingri e la sua bella locanda sulla strada, al calore del pomeriggio precedente, tra intarsi colorati e morbidi divani vecchi e polverosi...


E pensavo alla solitudine silenziosa di questo luogo arido ed immenso, il vento che arriva da lontano e lontano se ne va via, pensavo al burro di yak e alle montagne innevate, altissime, oltre le quali non esiste niente di più alto, così alte da essere vicini al cielo in ogni momento, sembra di poter essere in ogni momento in contatto con Dio.
E pensavo all'immenso della natura, all'uomo che come il vento, la neve e la sabbia altri non è che una piccola creatura davanti a tanto semplice infinito. Vorrei rimanere qui a godere di questo silenzio portato dal vento e questo caldo di un bellissimo novembre tibetano.

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