domenica 24 giugno 2012

In Tibet - Tra Uomini e Dei (di Silvia Vernetto)

C'è un bel libro sul Tibet edito da Lindau nel 2008 e scritto dall'astrofisica Silvia Vernetto. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da una scienziata, i racconti - tutti brevi capitoli sui pastori, sulla gente del piccolo villaggio di Yangpachen, sulla natura, sulle povere famiglie del luogo - sono molto toccanti e poetici. E descrivono benissimo la vita quotidiana dei piccoli paesi, in mesi sospesi tra l'estate e l'inverno, quando la natura illumina di colori le alte montagne e le praterie povere. Dove la neve, la pioggia e il vento sono i signori incontrastati di queste terre silenziose e immense dominate dal respiro degli dèi.
Si impara la storia antica e contraddittoria di questa immensa regione, la storia del buddhismo tibetano e i rapporti con i potenti vicini cinesi e mongoli: se da un lato l'odio per il genocidio culturale cinese ne esce rafforzato, dall'altro l'autrice indaga profondamente anche sugli aspetti meno conosciuti di una società, quella tibetana, ancora arcaica, povera, persino ingiusta nello strapotere di una teocrazia che schiavizzava la povera gente. Le lotte di potere politico tra le sètte buddhiste non è meno tragico e materialista dell'invasione economico/politica cinese.
Il Tibet è una realtà contraddittoria e con questo libro forse, sicuramente, si può anche vedere oltre la classica visione stereotipata - e limitata - dei poveri tibetani oppressi dalla dittatura cinese. C'e' qualcos'altro che forse non sappiamo o non ci è mai stato detto.
Eppure c'e' spazio anche per la speranza, la fratellanza, il rispetto delle culture: come la storia di Cavallo Pazzo, un cinese che si sente legato più al Tibet che alla sua patria d'origine: la descrizione dolce, poetica, vera e sentita di questo strano personaggio collega di lavoro dell'autrice non può far a meno di commuovere, di ringraziare gli dèi per aver trovato questo bel libro in biblioteca.

C'è anche una bella descrizione di Lhasa: bella e semplicemente perfetta nel saperne cogliere i mille aspetti, le due anime in cotrapposizione - la vecchia città tibetana povera e sporca e la pacchiana, aggressiva e invadente città nuova fatta dai cinesi per i cinesi.
L'autrice sa descriverla meglio di mille fotografie: per me che ci sono andato tra Novembre e Dicembre 2011 è come un tuffo nei ricordi di una esperienza meravigliosa e lo stimolo a ritornarci per capire altre cose, per stare vicino ad un popolo semplice e buono come i tibetani.

Allego le scansioni di questo capitolo dedicato alla Città degli Dèi - questo significa Lhasa in tibetano - sperando che l'autrice non se ne abbia a male. Ma sono pagine così vive da far sembrare di essere ancora li, in quelle stradine affollate e fumose, sporche e brulicanti di vita e religione.











lunedì 11 giugno 2012

Polvere e burro di yak

Il templio di Changmoche, Lhatse, non è nè più bello nè più brutto di tanti altri nel Tibet. E' buio e arredato con mille tanka coloratissimi che pendono dal soffitto come festoni, in legno sono i mobili e le credenze dove sono racchiusi migliaia e migliaia di statuette di Buddha sacri, così come in legno sono le lunghe panche dove siedono, dormono e pregano i monaci, tutti in fila davanti al trono di legno del Maestro del templio che col suo bastone fa suonare l'enorme tamburo annunciando la raccolta e la fine delle ore dedicate alla preghiera. In legno sono anche le scale e i corridoi e balaustre dei piani di sopra, inaccessibili a chi non è monaco ed infine è in legno tutto quanto il resto, mobili, librerie, leggii, i contenitori dei sacri tanka, i rotoli in pergamena con le preghiere sacre. Tutto è finemente decorato con incredibili, coloratissime figure dai sacri colori del Tibet: giallo, verde, blu, bianco e rosso.
Un forte odore di burro di yak fuso copre ogni angolo, anche il più buio e nascosto.
C'e' a chi non piace, per il suo forte aroma dolciastro e denso. Io me lo porto ancora nei miei ricordi.
Il bello dei templi tibetani è il buio che nasconde tutto e tutto fa sembrare così misterioso: ti avvicini al grande altare col Buddha centrale e scopri che dietro ci sono migliaia di statue di altri Buddha appoggiati su invisibili mobili, su piccoli capitelli e invisibili credenze. La profondità della sala sembra non avere più confini, tutto sembra moltiplicarsi all'infinito.



Nel silenzio sacro il burro di yak brucia e si spande nell'aria. Qualche ombra sfuggente passa in lontananza, timida e furtiva.

E' novembre, un novembre caldissimo e soleggiato quando siamo arrivati a Lhatse, terzo giorno di viaggio sulla strada che da Kathmandu portava a Lhasa.

Ricordi.
La città nuova è sempre, ostentatamente cinese. Negozi cinesi, mercanti cinesi, ragazzi cinesi negli internet point, prodotti cinesi, musica cinese, fiche cinesi, alberghi cinesi. E come ogni villaggio di insediamento cinese, le vie sono brutte e tutte uguali. Polverose, scassate, sporche e piene di quei palazzoni quadrati dai grossi fondi al pianterreno - o magari rialzati giusto 2 o 3 gradini rispetto alla strada - che sono sempre tutti uguali, delle stesse dimensioni ed ospitano file interminabili di negozi anche loro sempre tutti uguali. C'era una ragazza bellissima, coi riccioli neri e il nasino all'insù, culo bellissimo fasciato da jeans corti e stretti. Di fronte il solito via vai cinese davanti ai soliti negozi cinesi.

Fuori dal paese una strada porta al monastero di Lhatse Chode, situato in alto, sul fianco di un monte polveroso e aridissimo, poco oltre un piccolo ponte che attraversa un impetuoso torrente. Questo torrente non so se è il Brahmaputra, il fiume sacro degli indiani, ma passa anch'esso proprio da questa valle. Forse è lui, forse un suo affluente. Nel monastero abitano solo donne e il silenzio che vi regna è ancor più etereo, spettrale.


Piccole casette con la parete a strapiombo sul fianco della montagna raccontano tutta la semplicità di questo popolo. Eppure la strada che vi arriva, pochi km fuori dalla moderna parte cinese della città è quanto di più bello e silenzioso, elegante e ricco per gli occhi che la cultura tibetana possa offrire come abitazione. Camminare lungo queste vie silenziose mette pace e tranquillità. Ogni casa è dentro una corte circondata da un muro di fango e pietra pitturato di bianco, nel quale si aprono portoni in legno rosso finemente ricamati, con architravi che sorreggono tettini in legno e festoni colorati.



Sopra il monastero femminile di Chode si erge la vecchia fortezza abbandonata e distrutta dalle truppe cinesi. Tutto è polvere e fango essiccato, aridità e vento. Camminare sul fianco del monte non è facile e la fortezza cade in rovina. Ne rimangono solo le mura esterne che - come tutte le opere di difesa militare cinesi, seguono     l'andamento della cresta delle montagne.


Vento e bandierine che si staccano e volano via, a volte vicino a volte lontane, molte volte dentro il letto del fiume, facendolo sembrare quasi una brutta discarica a cielo aperto.

Di la dal colle, sotto i nostri occhi, c'è la Lhatse vecchia, quella tibetana delle casette in fango e delle pagnotte di escrementi di yak impilate fuori dalla porta, per l'inverno, per il fuoco, con ne finestre bordate di nero a forma di trapezio, tipiche di tutte le abitazioni tradizionali.
Stradine strette, fangose e polverose immerse nel silenzio assolato di un pomeriggio di novembre, indolente, caldo e apatico.

Dopo aver fatto tanta strada, dalla cima del monte dove c'e' la fortezza, si scopre che il templio di Changmoche è proprio sotto, la dove si snodano i vicolini stretti della Lhatse vecchia, tibetana....ma la città cinese è vicinissima, tutto a diritto del viale del templio. Sembrava più lontana, invece è arrivata già qui.

In piccolo spiazzo sterrato fuori dal portone del templio  c'e' un divano, proprio davanti a una casetta di fango dalla solita entrata bassa. Accanto al divano c'è un tavolino ed un grosso ombrellone verde tutto sporco e rattoppato.
Mi son seduto li a fumare una sigaretta e bere una birra cinese e poco dopo mi sono addormentato, sotto i raggi di un sole caldo, invitante.

Pensavo a quanto era bello e silenzioso il templio, pensavo al dolve profumo del burro di yak e agli ooom che si sentivano intonare da qualche stanza sconosciuta di quel misterioso, labirintico luogo.

Pagnotte di escrementi di yak belle accatastate una sull'altra appoggiate ai muri di ogni casa, sorrisi di gente indaffarata e contadini che camminano piano nei loro lunghi sottatoni ricamati, i chuba.

Pensavo anche a Tingri e la sua bella locanda sulla strada, al calore del pomeriggio precedente, tra intarsi colorati e morbidi divani vecchi e polverosi...


E pensavo alla solitudine silenziosa di questo luogo arido ed immenso, il vento che arriva da lontano e lontano se ne va via, pensavo al burro di yak e alle montagne innevate, altissime, oltre le quali non esiste niente di più alto, così alte da essere vicini al cielo in ogni momento, sembra di poter essere in ogni momento in contatto con Dio.
E pensavo all'immenso della natura, all'uomo che come il vento, la neve e la sabbia altri non è che una piccola creatura davanti a tanto semplice infinito. Vorrei rimanere qui a godere di questo silenzio portato dal vento e questo caldo di un bellissimo novembre tibetano.

mercoledì 6 giugno 2012

Anno 2138, 25° anno del 17° ciclo, l’anno della lepre di metallo nel ciclo del Rab Rgyan


Capitolo 1 – Anno 2138, 25° anno del 17° ciclo, l’anno della lepre di metallo nel ciclo del Rab Rgyan. E’ già sera.

La porta di legno si spalancò all’improvviso e sulla soglia rimase una figura alta, scura, indefinita, avvolta in un pesante cappotto militare di tipo cinese: un berretto di lana grezza gli scendeva fin quasi sugli occhi. Era li che ansimava incerta se entrare o no mentre gelide raffiche di vento cercavano di farsi spazio ed entrare anch’esse nella piccola locanda. Mosse impercettibilmente lo sguardo verso destra, dove notò alcune donne sedute a un tavolaccio di legno, avvolte nei loro bei costumi tradizionali ed intente a bere un pò di tè...due erano di spalle, l’altra di fronte, chiara, precisa, con lo sguardo basso mentre sorrideva e parlava sottovoce con le compagne senza dare troppo nell’occhio. La misteriosa figura sembro’ confortata da quella visione di apparente tranquillita’. Allora si decise, entrò e sigillò ben bene la porta con la trave di legno.

“Wo yao chi fan”, “voglio mangiare” disse con tono deciso, senza guardare in faccia il padrone appena affacciato dalla piccola cucina, poi si tolse i guanti velocemente e altrettanto rapidamente si diresse verso la stufetta posta nell’angolo vicino alla finestra dove – con un profondo sospiro di sollievo – lasciò le mani ad affumicare sopra bollenti nuvole di vapore. Un breve sorriso solcò la sua pelle paonazza, sfregiata dal vento e dalla sabbia che si era tutta impastata nella barba ispida ma fu solo un fugace accenno e il suo volto tornò a sembrar come scolpito nella pietra: troppo doloroso ancora muovere i muscoli intorpiditi, storditi da quel gelo maligno e lacerante che da queste parti non cessa mai di martoriare i corpi.

Altri lunghi attimi di silenzio, movimenti lenti, lentissimi, misurati che piano piano cercavano di diventare piu fluidi senza concedere troppo alla fretta e al dolore: le dita cominciarono ad accarezzare dolcemente le nuvole di fumo che sembravano comporre una invisibile sinfonia nell’aria calda e profumata che emanava dal pentolone dove cuoceva un minestrone di verdure - i piedi cominciarono a battere sul pavimento per riprendere sensibilità, lo sguardo vagava a destra e sinistra per ubriacarsi di immagini e di tepore domestico. Colori, dipinti di divinita’ buddhiste, povere foto e miseri tavolacci, pareti umide e scrostate appena spruzzate di un azzurrino spento e addobbate qua e la di immagini paradisiache di paesaggi fatti col photoshop, travi e architravi in legno ormai in gran parte ricoperti dalla grigia patina del tempo, la tv sempre accesa su un generico canale che trasmetteva uno show cinese e la tendina sudicia e tutta consumata che separava la saletta dalla cucina: tutto sapeva di così familiare, di già provato tanto tempo prima. Solo il calendario proponeva qualcosa di nuovo: dopo una prima rapida occhiata e dopo una più lunga dove si premurò di aver letto bene, lo straniero si accorse che era cominciato il nuovo anno: il 2138, il 25° anno del 17° ciclo, l’anno della lepre di metallo nel ciclo del Rab Rgyan. Doveva essere cominciato da poco, pensò e se ne rallegrò: “Bene, la lepre è il mio segno, questo sarà il mio anno fortunato dopo tutti questi casini”, pensò e finalmente riuscì a sorridere senza sentire più dolore. La vita sembrava tornare a scorrere nel suo corpo.

“Xin nian kuai le”, “Buon anno” disse allora al padrone che era ancora li fermo a pochi passi e che lo stava guardando in attesa che il nuovo cliente si fosse sentito finalmente a suo agio. I due incrociarono gli sguardi e si fissarono negli occhi in silenzio, senza dire una parola per un lungo, lunghissimo momento, fieri uno verso l’altro. Solo un impercettibile moto di sorriso sui loro volti altrimenti immobili fece infine intendere che si erano riconosciuti dopo così tanto tempo. Forse neanche si ricordavano quanto tempo fa si videro per la prima ed unica volta ma entrambi scossero la testa nel solito momento: non si erano dimenticati l’uno dell’altro. “Xin nian kuai le” gli rispose il locandiere.

Il padrone della locanda non aveva piu di 30-35 anni ma come tutta la gente di questi maledetti posti ai limiti del mondo, aveva ormai la pelle tutta scura, dura come un vecchio pezzo di camoscio, segnata dal vento gelido e dal sole crudo. Le rughe gli solcavano il volto come i ghiacciai quando spaccano i fianchi delle montagne. Era sporco e malvestito, e allo straniero parve che stesse indossando i soliti vestiti che indossava anche la prima volta che lo vide. Lo straniero si osservò per un attimo le mani: erano diventate anche a lui tutte gonfie e dure, rattrappite, nere e sporche come le sue dopo così tanti giorni in quelle lande dannate fatte solo di polvere, sassi e gelo. “Presto diventerò anche io così” pensò, tirando una bestemmia, e se le portò alla barba per pulirsela ma non provò assolutamente nessuna sensazione: allora bestemmiò nuovamente e sputo’ in terra, poi si voltò ad osservare le donne che continuavano a starsene li a spettegolare sottovoce col capo chino e la schiena curva lanciando ogni tanto sguardi curiosi. Tiro’ su di naso e sputo’ sul pavimento di terra battuta, infine col piede ricopri’ con la sabbia.

“Zuo ba” rispose il locandiere sorridendo indicando un tavolo a cui sedere “Ni yao chi shenme?” “Cosa vuoi mangiare?”...ma lo straniero non rispose e preferi’ continuare a sprofondarsi sul comodo divano che girava tutto intorno alla stufetta...era morbido, con i cuscini di velluto rosso e fatto di legno giallo riccamente ricamato con draghi, guerrieri, figure e intarsi multicolori che sembravano non finire mai ed – anzi – sembravano moltiplicarsi ogni volta che lo sguardo si posava su un punto preciso: le nuvole di vapore che venivano su allegramente dalla stufa sembravano confondergli ancora di più la vista. Rimase cosi’, senza dire una parola e cominciò ad osservare meglio attraverso quelle nuvole di fumo e gli parve allora che quelle piccole figurine scolpite nel legno avessero preso vita e stessero combattendo tra di loro. Il suo sguardo allora si perse in mille immagini fantastiche sospese tra fantasia e realtà – il viaggio, le cose che gli erano successe, il semplice fatto di essere nuovamente li in quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini - e cominciò a sorridere tra se e se a occhi semichiusi per tutta questa bizzarra galleria di sensazioni ed emozioni che dopo tanti giorni finalmente erano libere di scatenarsi...pensò a Lhasa che sembrava ormai così distante, rivedeva i terribili precipizi senza fondo lungo i quali aveva corso per giorni e giorni, gli sconfinati spiazzi desertici e polverosi immersi nel silenzio piu assoluto, gli tornarono in mente anche le profezie fatte prima di partire da Kathmandu e la sinistra visione della Kumari ed adesso era nuovamente li, proprio dove voleva arrivare, per trovare rifugio e per rivedere lei, per sentire ancora il suo buon odore intenso di tibetana, godendo della buona tazza di te nero appena ricevuto li accucciato su quel morbido divano traballante mentre le pagnotte di escrementi di yak bruciavano allegramente portando un pò di calore e profumo dentro quella misera locanda: alla fine, vinto dalla stanchezza e dall’emozione si lasciò incantare dalle misteriose immagini colorate nascoste dal fumo e, ben presto, chiuse gli occhi e si addormentò. Gli parve anche di vedere delle figure uscire dalla cucina, gli parve di vedere anche lei, col solito giubbotto aperto e la sciarpa tutta attorno al collo ma a quel punto ormai non sapeva più se stava sognando o cos’altro.

Quando si risvegliò era ancora notte fonda ma non sapeva dire con precisione che ore fossero: da queste parti il sole cala sempre troppo presto e sempre troppo tardi rispunta fuori dalle altissime montagne che circondano la valle solitaria. Pensava che fosse ancora notte fonda perchè fuori era tutto silenzio ma da queste parti c’è sempre silenzio: ci pensa il vento gelido a portare via qualsiasi rumore e coprire tutto con le sue urla, in ogni momento, questo gelido vento maledetto che spazza sempre via tutto e lascia solo il proprio sibilare a riempire questa desolazione assoluta.
Per lunghi attimi rimase ancora stordito, non gli riusciva capire bene dove fosse e cominciò a guardare la stufa e il divano di fronte e si stupì di non essere più a casa sua, in Italia. “Ma dove...” non finì neanche di pensare che notò una figura seduta proprio davanti, un po’ spostata sulla sinistra e vide le gambe fino alle ginocchia, notò dei calzini un tempo bianchi e delle scarpe da ginnastica vecchie e sporche, poi alzò lo sguardo e rimase ancora più stupito. Era lei.


Capitolo 2 – La visione alla gonpa

“Ti stavo aspettando” gli disse finalmente il locandiere mentre lo straniero sorseggiava una tazza di chai nero bollente che gli aveva portato Kama, la ragazza.
“Mi stavi aspettando?” chiese sorpreso staccando le labbra dal bordo della tazza.
“Si, mi avevano annunciato che saresti venuto qua”
Lo straniero getto’ con violenza la tazza per terra e si alzo’ di scatto in piedi guardando il suo amico con occhi minacciosi e allarmati.
“Chi ti ha detto che sarei venuto qui?”
“E’ stato il vento” rispose il locandiere con un sorriso, per tranquillizzarlo. “Il vento ci porta tante notizie. Basta saperne riconosce la voce”
Lo straniero sembro’ rilassarsi per un attimo, poco sorpreso di quella strana risposta ma ancora sembrava non del tutto convinto.
“Il vento potrebbe sibilare anche agli orecchi di altri” disse allora lo straniero con tono tra il distaccato e il sospettoso guardando in direzione della finestra, cercando di scorgere qualcosa attraverso quei vetri sudici, ma tutto, fuori, era avvolto nelle tenebre. Il locandiere sorrise.
“Guarda la’ fuori...ci sono soffi di vento che vengono da nord e altri che vengono da sud. Qualcun’altro sembra venire dal fiume e qualcun’altro dal ventre stesso della montagna, altri vengono da chissa’ dove. Ed ognuna di queste e’ una voce che racconta cosa succede al di la’ di questa valle sperduta tra gli alti monti. L’altro giorno io ero seduto lassu’ sulla cresta a meditare ed offrire doni e incenso alla Dea Lakhsmi. Ad un certo punto una raffica piu’ forte di tutte le altre ha cominciato a girarmi tutto attorno e sollevare le bandierine di preghiera che avevo portato con me per attaccarle al chorten del Piccolo Passo, quello lassu’ sopra la vallata dalla quale si puo’ vedere l’ansa del fiume, ti ricordi? Il vento mi aveva accerchiato e sollevava tutto. Ad un certo punto una bandierina gialla mi colpi’ in faccia e quando riuscii ad afferrarla, lessi una preghiera che non avevo scritto io. Diceva: accogli l’amico che cerca riparo e forniscigli cibo e aiuto perche’ la sua strada sara’ ancora lunga e tortuosa. Proteggilo dai nemici come fosse il piu’ prezioso dei tuoi tesori e porta una candela in piu’ per chiedere la benevolenza degli Dei”
Poi il vento me la strappo’ via di mano e volo’ lontano: non l’ho piu’ rivista ma dal Piccolo Passo si sentiva salire su come un lamento, un grido di aiuto sempre portato dal vento. Allora la mattina dopo sono tornato con un’altra candela di burro di yak e l’ho accesa dentro la piccola gonpa del Loto Solitario. La sua fiamma sembrava brillare di vita propria ma ogni tanto il vento soffiava fortissimo quasi volesse spengerla. Io ho cercato di riparare quella fiamma alta e bella, la candela sembrava non consumarsi mai ed era cosi’ luminosa dentro la buia gonpa che sarebbe stato un’offesa agli Dei permettere che il vento la vincesse. Con il tessuto del mio fagotto ho coperto la stretta entrata della gonpa e cosi’ facendo ho pensato di aver fatto una buona azione. Da fuori la luce della fiamma sembrava aver acquistato ancor piu vigore ed io allora fui convinto di aver operato bene per l’amico che gli Dei mi avevano chiesto di aiutare”

“Allora tu sai anche cosa e’ successo” gli chiese lo straniero, piu’ allarmato che sorpreso da quello strano racconto.
“So che viviamo tempi difficili per noi e per i nostri fratelli tutti” rispose il locandiere senza aggiungere altro.
“Gia’....viviamo tempi difficili” si limito’ a rispondere lo straniero, anch’egli senza aggiungere altro: si rinfagotto’ dentro il giaccone militare e torno’ ad osservare le nuvole di fumo che venivano dalla stufa.






3 – A Nyalam

La luce della mattina tarda sempre ad arrivare nella valle incassata tra altissime montagne ma quando il sole finalmente si affaccia oltre le alte creste, il panorama che si gode e’ talmente spettacolare che tutto, dalle case all’unica strada che scende giu’ fino al fiume attraversando il villaggio per poi risalire faticosamente fino alla Tibetan Road ai fianchi dei monti e persino le persone stesse che qui vi abitano, sembrano illuminarsi di una energia selvaggia e primitiva, libera e naturalmente felice come sospesa in un tempo immutabile e paradisiaco per quelle poche ore che questa magica atmosfera puo’ durare. Ma presto tutto questo torna poi ad essere avvolto da una grigia cappa fatta di tenebre, di nebbie maligne e grigio silenzio ghiacciato.
In quelle poche ore di luce e di sole il cielo e’ sempre incredibilmente terso, pulito, brillante, di un azzurro cosi’ sereno e quasi etereo da irradiare di felicita’ una natura altrimenti ostile, poverissima, fatta di niente, di polvere e di sassi. I fianchi nudi delle montagne emanano una maestosita’ silente e benevola, l’acqua del fiume a fondo valle brilla argentea e spumeggia sbattendo sui giganti massi franati dall’arido fianco del monte. I pochi colori della natura la mattina sembrano prendere vita: l’azzurro del cielo, il verde dei pochi arbusti e il bianco abbagliante delle cime perennemente innevate gioiscono per quelle poche, felici ore di luce purissima. Anche la vita nel villaggio sembra esplodere improvvisamente in mille colori, i colori dei costumi tradizionali tibetani, delle collane di turchesi, delle scarpe di feltro e dei cappelli a tre falde si mischiano col nero brillante dei capelli avvolti in splendide ruote ai lati della testa, al bianco smagliante dei sorrisi gentili e al cuoio annerito e bruciato dal sole delle facce allegre di questa gente. Come in un formicaio, brulicano in su e giu per l’unica strada in discesa del paese le figure eleganti, alte, snelle e profondamente belle dei tibetani: le donne paiono sempre un po’ grassocce infagottate come sono nei loro pesanti costumi di lana a sbalzi finemente ricamati e gli uomini sembrano sempre un po’ troppo effemminati con quelle gonne che scendono giu fino alle caviglie e i lunghi capelli raccolti in splendide trecce ora arrotolate tutto attorno alla testa, ora bellamente disposte a ruota dietro agli oreccchi, ora lasciate libere di svolazzare al vento.

Fu durante una di queste radiose mattine di inverno – piu’ o meno il nostro febbraio occidentale – che F si risveglio’ dal letto della locanda di Nyalam e si affaccio’dalla piccola finestra dabbasso per osservare la vivace attivita’ mattiniera della gente del luogo. Il sole illuminava ma non scaldava molto e non appena alzato si senti’ percorrere da un lungo brivido di freddo. Dopo un po’ torno’ su, nel soppalco dove era posto il grosso letto comune.
Kama era li, accanto a lui gia’ in piedi con una tazza fumante di chai tra le mani e sorrideva come sempre mostrando i denti bianchissimi. Vederlsela li davanti era una immagine dolcissima.
“Non dovresti farti vedere troppo in giro” gli disse mentre s’inginocchio’ davanti a lui per appoggiare la tazza su un piccolo sgabellino di legno posto accanto all’enorme letto dove dormiva con tutta la sua famiglia .
“In questo periodo pochi stranieri osano arrivare fin quaggiu’ e mai nessuno da solo. I cinesi qui hanno mille occhi e le notizie corrono veloci. Come il vento ha portato la notizia del tuo arrivo, esso puo’ portarla anche ad altre orecchie meno indiscrete delle nostre” continuo’ mentre, ancora inginocchiata cominciava a legargli le scarpe e assettargli il maglione di lana con cui aveva dormito quelle poche ore precedenti.
“Anche tu con questa storia del vento?” le chiese lo straniero, “va a finire che ci devo litigare con questo vento chiacchierone” le rispose ancora un po’ addormentato.
La ragazza continuo’ a sorridere nel suo volto rotondo e bellissimo e, postagli una mano sulla sua guancia, con l’altra comincio’ a pettinarlo dolcemente, con calma.
Lo straniero si senti’ percorrere da un lungo brivido caldo al suo contatto e l’odore intenso della ragazza lo attirava tantissimo. Mano a mano che lei continuava a pettinarlo, le sue dita cominciavano timidamente ad accarezzargli la barba.
“Tu devi credere a queste cose, Da Hai” sussurro’ Kama.
“Non chiamarmi Da Hai, qui non siamo in Cina, qui Da Hai non esiste!” le rispose seccato, interreompendola.
“Gli Dei ci hanno chiesto di aiutarti e noi non possiamo opporci alla loro volonta’” continuo’ la ragazza sorridendo e continuandolo a pettinare, incurante di quella brusca interruzione. Ormai gli si era gia’ seduta sulle sue ginocchia, la sentiva cosi’ vicina e continuava a sorridere lasciando che la mano dello straniero cominciasse ad accarezzarla dolcemente.
“Se tu sei arrivato qui significa che sei in pericolo e noi ti aiuteremo anche se questo potrebbe essere molto rischioso per noi, ma mio padre ha fatto giuramento agli Dei e non puo’ mancar meno alla sua promessa”
“Tu sai cosa ho fatto?” le chiese: ma ormai la sua mente e i suoi sensi stavano cominciando ad inebriarsi dell’odore intenso che emanava da quella bella tibetana . Kama non rispose e continuo’ a guardarlo sorridendo.
“Dimmi, da quanto tempo non ti lavi?’
“Io ho 21 anni e ancora non mi sono mai lavata” rispose la ragazza con un sorriso timidissimo e complice, abbassando lo sguardo, un po’ imbarazzata, un po’ orgogliosa: e fu solo a quel punto che appoggio’ il pettine sulla coperta e si inginocchio’ proprio davanti a lui, con le mani appoggiate sulle sue gambe.
“Noi tibetani possiamo stare anche tutta una vita senza lavarci, lo sai: ed io ancora non l’ho mai fatto, fa parte della nosta cultura”, aggiunse inarcando le sue labbra carnose e socchiudendo gli occhi, poi si risiedette sul letto accanto a lui e ricomincio’ a carezzargli il volto e lisciargli la barba. Il suo odore forte lo ubriacava e il cuore dello straniero batteva fortissimo. Comincio’ a sbottonarle i pantaloni di jeans consumati.
Si sdraiarono sull’enorme, morbidissimo letto comune tutto incassato tra alte sponde in legno, nel soppalco sopra la stanza della locanda...
“allora e’ arrivato il momento di lavarti, per la prima volta nella tua vita” e le tolse i pantaloni e con essi le mutande sporche che si portava addosso da chissa’ quanti anni.
.
“Quanti?” chiese la ragazza con un sospiro caldo mentre gli si aggrappava alle braccia, con gli occhi chiusi.
“Quattro, e se lo meritavano tutti”
“Quattro?”
“Si...e se avessi potuto, ne avrei ammazzati ancora di piu’...ma perche’ me lo chiedi? Sai forse qualcosa? Cosa sai?” provo’ a chiederle.

“Il vento...il vento che ti ha portato qui ci ha detto cosa ti e’ successo”
“Qui tutti sembrate sapere qualcosa...maledizione....alla fine l’unico che non ha ancora capito niente sono sempre io”
“La tua strada e’ ancora lunga e dolorosa, altro sangue dovra’ scorrere perche’ i nostri nemici sono tanti. Prega gli Dei perche’ hanno scelto per te un compito difficile”

Machismo turco


Mimar Mehmet Aga non la si può certo definire una via particolarmente interessante: non ci sono ristoranti di particolare lusso o negozi di pregio in questa strada tutta in discesa, tantomeno monumenti o cose importanti segnati sulle mappe degni di visita, ma è il collegamento tra la centralissima via in salita di Sultanahmet, la via più importante che attraversa questa parte di Istambul e il piazzale oltre il quale si estende tutto il complesso di Aga Sofia. E’ per questo che, pur essendo una via anonima, nè peggio nè meglio di tante altre, è sempre trafficata da turisti di tutte le età e razze. Proprio per questo la via è ricca – ma quale via di Istambul non lo è? – di ristorantini, bettole, tavole calde ma anche di piccoli supermercati, negozi di souvenir, c’è persino una agenzia di viaggi, una libreria e un negozio di strumenti musicali tradizionali. Niente a che vedere con Yerebatan, la lussuosissima via turistica che sta sull’altro lato di Sultanhament, piena di negozi che vendono marche di pregio, vetrine lussuosissime e imponenti, grossi brand internazionali che vanni da Cavalli a Prada, da Starbucks a McDonalds, con banche, uffici, tutto quanto fa modernità, benessere e capitalismo.

Ma a Mimar Mehmet Aga è possibile sedersi in tutta tranquillità ad un tavolino fuori dai numerosi ristorantini che punteggiano i due lati della strada e godersi un pranzo senza dover pagare piu di tanto e sopratutto essere lontani dalla calca e dalle masse dei turisti.

Mehmet è uno di questi ristoratori, si chiama proprio come la strada ed è sempre li sull’uscio della porta a controllare chi passa fuori e chi lavora dentro: un sorriso per i primi, un urlo secco e autoritario per i secondi. Sembra uscito da un film di mafia anni ’30, anzi sembra proprio Don Vito Corleone con 30 anni di meno: doppiopetto nero, camicia bianca, cravatta, piccoli baffetti sottili, capello rileccato tutto all’indietro, solito volto di Robert De Niro. E’ al tavolo del suo ristorante che mi son seduto la mattina del mio secondo giorno a Istambul: una mattina grigia e ventosa, umida, uggiosa.

Come tutti i turchi Mehmet è un imbonitore: ogni volta che passa un cliente ha qualcosa da suggerirgli circa la qualità della sua cucina e dei suoi prezzi, un complimento, un saluto gentile, un apprezzamento al passante. Sussurra, propone, la gente continua a camminare e lui torna li ad aspettare col suo sorriso e le braccia immancabilmente congiunte dietro la schiena. Non ha fretta: prima o poi qualcuno si siederà, forse più attratto dalla semplice bellezza del locale piuttosto che dalle sue lusinghe vane. Eppure fa molto turco il promettere meraviglie e paradisi di gusto ai clienti, magari sussurrando con voce calma, bassa e mielosa accompagnando con qualche rileccato saluto. Proprio come ha fatto a me, indeciso su dove andare a mangiare qualcosa. In realtà anche io sono stato attratto più dalla pubblicità di un piatto di cotolette e patatine piuttosto che dalle sue chiacchiere: anzi, mi ci è voluto poco per capire che a Istambul meno si da retta alla gente che vuol vendere qualcosa e meglio è.
Coi suoi modi educatissimi e estremamente controllati sembra essere uscito da una alta scuola di comportamento, sembra quasi un baronetto del mondo della ristorazione. Ha sempre l’accendino d’argento pronto in mano non appena un cliente vuole fumare e, con gesto elegantissimo e sicuro accende la sigaretta sussurrando l’ennesima gentilezza con la sua voce bassa e melliflua: poi torna li, impettito sull’uscio della sua porta a guardare i clieni che passano.

In mancanza di altri clienti, quel giorno ventoso e umidiccio, Mehmet si è messo a parlare con me, sempre rimanendo li a guardia della sua postazione. Dopo le prime domande di rito ha cominciato a parlare un pò di tedesco e un pò di italiano, frutto di sue precedenti esperienze lavorative in giro per l’Europa. Sembrava un tipo cortese e intelligente, pieno di buone maniere, non come quegli scalmanati del ristorantino poco più in la che urlavano, si agitavano, erano tutti unti, sporchi, vestiti male: tutta un’altra cosa, un’altra classe, apparentemente.

Eppure ci è voluto poco per capire che ogni donna che passava, bella o brutta, giovane o vecchia che fosse stata, si sentiva gli occhi appiccicosi e languidi di Mehmet addosso finchè la stessa non scompariva dal campo visivo, ricevendo ancor più languidi sussurri e complimenti una volta le fosse passata di fronte. “Come sei bella, che bel corpo che hai, il tuo corpo sembra quello di un angelo, Sei libera stasera?”...ce ne aveva per tutte, indifferentemente, sempre con quel sorriso tirato e accattivamente e quella gentilezza impostata che col passare del tempo mi sembrava sempre più falsa e fastidiosa. I complimenti erano tutti ossessivamente rivolti alla bellezza del corpo femminile, alle cosce, al culo, ai capelli, al seno e le domande invariabilmente le stesse: “cosa fai stasera, sei sola, hai il ragazzo?”. Il sorriso di Mehmet e la sua voce bassa e flautata mi parevano ogni momento che passava sempre più sporchi, pervertiti, insopportabili.
“Tu non capisci le donne, ma a loro fa piacere essere trattate così” mi ha detto a un certo punto, evidentemente notando una specie di imbarazzo da parte mia. “Guarda questa che sta arrivando che cosce ha. A letto ti farà stare come in paradiso” e, pochi istanti dopo queste parole verranno ripetute anche a lei: “ciao bella, di dove sei? Americana? Le tue cosce sono un paradiso”...
“Vedi”, spiegava serissimo avvicinandosi ed accendendomi l’ennesima sigaretta. Avevo notato che aveva l’orologio d’oro e vari braccialetti d’oro. “Noi siamo maschi turchi, sappiamo come trattare le donne e loro desiderano questo. Io sono un fedele servitore di Allah: non bevo, non fumo, non uso droghe e Allah mi da una potenza sessuale che tutte le donne desiderano. Io posso anche fare l’amore 10 volte in una sera, ma questi americani ?!? Loro bevono, sono ubriachi, non hanno morale e dignità...che uomini sono? Come fanno a soddisfare le loro donne? Per essere virili dobbiamo mangiare bene, il segreto è questo, e tutte le donne sono tue. E le donne turche, amico mio, non so se le hai mai provate, ma sono fedeli servitrici dell’uomo, faranno tutto quello che vuoi se dimostri loro di essere un vero maschio”.
C’era una profondissima convinzione spirituale e filosofica in quello che diceva, mi aveva preso pure per un braccio come se quella che mi aveva appena detto era una grandissima verità, un segreto profondo da confidare solo a poche persone.
Ma a me sfuggiva una certa logica del tutto: come è possibile autodefinirsi fedeli servitori di Allah e poi parlare solo dell’importanza di una alimentazione corretta per avere devastanti prestazioni sessuali? Mi turbava il fatto che un vero servitore di Allah fosse, sorprendentemente uno sciupafemmine patentato. Piu sei fedele, più obbedisci ai dettami di Allah e più donne il Divino ti porterà per soddisfare la tua fede e la tua virilità. A pensarla così, provavo un profondo disgusto, mi pareva che in tutto questo discorso le donne non avessero nessun ruolo, nessuna possibilità di intervento, che fossero solo una preda, un terreno di conquista per ogni buon virile fedele.

Più in basso, lungo la discesa, la cricca degli altri ristoratori agitati e sudici rivolgeva altri pesanti apprezzamenti ad un gruppo di americane che erano appena passate davanti a noi. Mi pareva che stessero provando il calvario di Gesù Cristo o le Forche Caudine. “Come on, I’m your man, come with me baby to paradise, you have a nice smile, you have a nice ass, come here, I’m your turkish man” e si agitavano e sbracciavano sempre di più, in preda a un irrefrenabile e inestinguibile orgasmo, ridendo sempre più sguaiatamente tra loro.
Cercavo di guardare i turisti, di capire le loro reazioni, di leggerli in volto per capire se era solo una mia paranoia o veramente questa atmosfera pesante la captavano pure loro. Ho notato come i turisti affrettavano tutti il passo o cercavano, con più insistenza, di parlare tra di loro evitando il più possibile di rivolgere la benchè minima attenzione a tutta questa massa di turchi appostata fuori dai propri negozi. Molti erano chiaramente innervositi, scuotevano la testa e commentavano tra di loro. Ho sentito un paio di “bastards” e anche un “cochon”.
Una ragazza, finalmente, ha avuto il coraggio di fermarsi e reagire, era esasperata e ha urlato così forte da farsi sentire lungo tutta la strada: “mi fate schifo, siete solo degli animali, non posso vivere in pace da quando sono arrivata qui, siete dei maiali!”: ma non sembra che i suoi commenti abbiano sortito una grande reazione perchè il gruppetto di scalmanati turchi continuava a ridere, anzi ancor più rumorosamente di prima in preda ad una irrefrenabile euforia ed uno di loro le aveva parato il cammino mettendosi in posa davanti a lei, gonfiando il petto e i bicipiti: “look, don’t you like me? Do you like my friends?” ....
Tra la simpatia e l’odio spesso corre una sottilissima linea e mi sembrava che quei tipi l’avessero già passata da un bel pezzo. Voltandomi e vedendo Mehmet li fermo col suo sorriso falso e il suo occhio che seguiva il culo di ogni ragazza decisi di non fermarmi oltre il dovuto e di fumarmi una sigaretta tornando verso l’Ostello piuttosto che perdere altro tempo li.
“Non hanno classe” mi ha detto Mehmet poco prima che pagassi il conto mentre con eleganza stava prendendo gli ordini da una coppia di anziani spagnoli che si erano seduti accanto a me. “Le donne devono essere trattate come fiori, farle capire che sono belle, farle sentire importanti. Alle donne piace il maschio duro, non un esibizionista come quello là”.
Ascoltanto il suo ultimo pistolotto, ringraziatolo del pranzo (mi ha portato delle cose diverse da quelle che avevo ordinato: forse stava guardando una ragazza passare mentre io gli indicavo il menu per ordinare quello che volevo) mi stavo quindi dirigendo giù verso il mio ostello, passando anche quella massa di scalmanati che non smetteva di agitarsi e commentare a voce alta i particolari anatomici di ogni donna che passava.
Alla fine della discesa, la dove, attraversati i binari del tram al Parco di Sultan Ahmet, c’erano diverse persone, qualche carrettino ambulante, operai, molti turisti che adavano in su e giù.Ad un certo punto un signore turco sulla quarantina è fermato da una coppia di giovani (presumo) americani per alcune informazioni. Il turco nota la ragazza e comincia subito a parlarle, a rispondere solo a lei nonostante che le domande le facesse il ragazzo, comincia a sorridere e a sistemarsi la giacca finchè ad un certo punto non la prende sottobraccio e le mostra la veduta della piazza con un ampio gesto. Le comincia a parlare e a dirle chissà cosa, mentre il ragazzo, ignorato era li indeciso sul da farsi, cercava di interrompere lo sproloquio e di chiedere informazioni: tutto inutile. Ormai l’uomo aveva sottobraccio la ragazza e lei sembrava visibilmente imbarazzata dalla situazione. Lui intanto continuava a parlarle e, le poche domande che il giovanotto riusciva a formulare erano motivo in più per annaffiare di parole la povera ragazza. Finalmente infastidito al punto giusto il ragazzino prende con forza la sua amica e si allontanano di gran passo, scuotendo la testa infastiditi. L’uomo era ancora li, col suo bel sorriso ammaliante che si stava sbracciando per salutare la ragazza, ormai sempre più lontana, la salutava con ampi gesti, col braccio alzato e sventolante. Poi, con un bel sospiro si gonfia il petto, si da una sistemata ai capelli coi palmi delle mani e tira fuori un sorriso di piena soddisfazione, da un colpetto a un venditore ambulante come per dire: “hai visto che donna, eh?” e si allontana finalmente via col passo di chi ha appena vinto al Super Enalotto.

Sono tornato all’ostello pieno di strani pensieri...da quando ero montato sul treno da Xanthi a Istambul avevo solo chiacchierato con turchi che parlavano solo di Allah, odio per i greci e sopratutto sesso, donne, segreti per scopare meglio, tecniche di conquista. Roshan era uno di questi: si vantava di essere un fedelissimo servitore di Allah perchè amava solo sua moglie e non aveva bisogno di pensare alle altre donne e allo stesso tempo importunava tutte le ragazzine greche che passavano in su e in giù nella carrozza finchè, per sua stessa ammissione, non è andato in bagno “a fare una cosa”. Non ho sentito parlare di altro e questo osceno mix tra sacro e misogino mi stava veramente dando un fastidio enorme.

“Mike” era sempre lì, all’ostello dove lavorava vicino al Topkapi, riconoscibilissimo per il suo cestone di capelli alla Jackson 5 perfettamente rotondo, probabilmente curato con la stessa precisione certosina del giardiniere che cura l’erba di Buckingham Palace, i bei tatuaggini tribali di moda nei posti più giusti e visibili, ai polsi, sul collo, sulle caviglie, una montagna di braccialettini e collanine sparsi per tutto il corpo per fare freak quanto basta, un moderno woodstockiano però molto più elegante e aggiornato al 2010, con Ipod e lettore Mp3 che vanno, al passo coi tempi e profumatissimo. Mi hanno detto che tutte le ragazze sbavano per lui e i bigliettini, i messaggi, le cartoline e i ricordi sul portone di entrata sembrano confermarlo: “Mike non ti dimenticherò mai, Mike sarai sempre nel mio cuore, Mike ti amo” e via cazzeggiando....
Era li, come al solito, come l’ho sempre visto da quando sono arrivato, che stava parlando sottovoce con tono flautato e l’immancabile sorrisino accondiscendente seduto al tavolo assieme a un gruppetto di americane appena arrivate. L’ho sempre visto così, parlare solo con le ragazze, le piu carine ovviamente, nei 3 giorni che ho passato in tutto in quel posto. Mattina, sera, notte, sempre li a parlare solo con ragazze. Ai maschi solo alcuni cenni di saluto col capo, freddi e formali.
“Giusto caso, ho la musica che fa per te” diceva a una tipa mentre si passavano le cuffiettine dell’mp3, “ho proprio il gruppo che fa per te, ti piacerà di sicuro, dopo vieni su da me che te li faccio sentire, dai ti aspetto” e il suo sorrisino dolce da ragazzino carino e perbenino mi sembrava ancora più falso, costruito, programmato a sopportare e recepite tutte le cazzate che ogni ragazzina logorroica e nostalgica gli raccontava in queste sere di romantiche lune turche.
Li ho capito veramente che per fare i cascamorti bisogna veramente avere una gran pazienza e una gran faccia tosta: sorridere sempre, fare finta di interessarsi a tutte le sciocchezze che una sciocca ragazzina dice, manifestare stupore e emozione ad ogni cazzata che si ascolta, farle capire che sta dicendo cose interessantissime e irrinunciabili. Ci vuole pazienza e autocontrollo infiniti per sopportare tutto ciò. Bisogna essere dei gran paraculi e lui questa paraculaggine ce l’aveva bella stampata in faccia. “Ho il libro giusto per te, ho la musica giusta per te”...glie l’ho sentito dire a diverse ragazze, la solita tecnica, le solite frasi, i soliti trucchi. Spero che non lo abbia detto anche a quella bella giapponesina che mi era venuta a parlare. Lui le si è seduto accanto, le ha portato un bicchiere di te e le ha detto qualcosina sottovoce, una battutina, un complimento, chi lo sa e si sono messi a ridere.
Quella mattina – ma così sarebbe stato anche la mattina dopo – lui era già li seduto al tavolo della colazione, tutto attorniato dalle ragazze: gentilissimo, passava il pane a tutte e versava loro il te, le faceva ridere e divertire. Con me e Riccardo Valsecchi, il fotografo italiano che abita in Germania, ma anche con gli altri maschi non sembrava avere tutta questa confidenza e non sembrava essere così affabile: per prendere il tè c’è la macchinetta dietro il muro, là c’è lo zucchero e se si vuole il pane dobbiamo chiedere al cuoco in cuina.

Magdalena, la simpaticissima ecuadoregna che lavora li da 6 mesi a nero lo odia, anzi lo disprezza proprio dal più profondo del cuore. L’ha sempre maltrattata e umiliata, la tratta con cattiveria e qualche volta l’ha anche presa a schiaffi e, mentre me lo raccontava il suo volto diventava triste e deluso. Non si arrabbiava ma era delusa dalla cattiveria e dalla falsità che si cela negli animi umani.
Forse era anche un pò gelosa perchè, come diceva, da quando era arrivata lo ha visto portarsi in camera più di 200 ragazze diverse e lei è vecchia, grassa e non particolarmente bella anche se veramente divertente e dal cuore d’oro. Forse è per quello che la tratta male, forse perchè è solo una serva e neanche attraente. “E’ solo un maiale, falso e violento come tutti i turchi. Sembra tanto bravo e in realtà è solo un animale. Mi fa schifo”.
Per tirarle su il morale, quella sera, abbiamo deciso di festeggiare tutti insieme, io lei e Riccardo con il salame e la grappa che mi ero portato dalla Grecia: siamo stati benissimo, abbiamo riso e scherzato alla faccia di tutti questi pseudo-maschi turchi e di quelle povere ragazzine americane in cerca di romantiche (mezze)lune turche. Usciti fuori per fumarci una sigaretta tutti insieme, Mike era ancora li, rigido e impostato come un baccalà, con gli occhi languidi e quel sorriso lascivo ad ascoltare le ennesime stronzate di una turistina in vena di scrittura: “oh, ah, wow!” ed il triste rituale si ripeteva un’altra volta. Chissà se in camera le ha fatto ascoltare la musica più adatta o le ha fatto leggere il libro che più faceva per lei.


Istambul prova a tutti i costi di darsi una patina di efficiente città europea: non so se ci riesca perchè ci sono stato così poco ma, camminando per Yerebatan sembra di essere a Vienna o Praga, senza particolari differenze. Almeno così sembra: ci sono i McDonalds e gli Starbucks, ci sono le banche e gli uffici internazionali, vetrine lussuosissime di Prada e Cavalli che sembrano li più per bellezza che per servire veramente i clienti, caffè e bar di alto pregio su tutti e due i lati della strada. Proseguendo per Sultanahmet il panorama è più turco, più tradizionale, coi negozietti piccoli e un pò precari, con le macchine scassate che sembrano fatte tutte in stile anni ’60, coi venditori di falso che sbucano ad ogni angolo e rappresentano una vera minaccia agli impegni del turista. Una città vivace, dai mille volti, trafficata, inquinata e dalle grosse potenzialità. Ma non è ancora Europa, no.
Sono andato a cerare un Western Union per ritirare i soldi che mi avrebbero permesso di arrivare fino a Teheran. Cercare un ufficio è come un ago in un pagliaio: si trova soltanto in poche e selezionate banche e non si può certo dire che le banche turche, pur belle, eleganti e dotate di moderni computer, belle pubblicità, arredi asettici e armoniosi, brillino per efficenza. Tutt’altro.
Le banche, ovviamente, sono tutte a Yerebatan, difficile trovarne altre fuori dalla grande strada piena di vetrine luccicanti, assolutamente impossibile trovarne una da altre parti che faccia servizio Western Union. E’ il solito specchietto per le allodole: nella strada bellissima, elegante, iperturistica si trova tutto e di più, si trova tutto quel lusso che nelle nostre città non troveremo neanche tra 1000 anni. La gente si emoziona, rimane colpita da tutto quel benessere e rimane ancor più stupita di trovarlo in un posto che in teoria dovrebbe essere il culo dell’Europa. Pensa che il paese sia incamminato su una strada di splendore e ricchezza, che il benessere sia ormai diffuso e la città rappresenti una nuova capitale del benessere consumista. In realtà, fuori dai punti strategici, quelli ovviamente destinati al turismo, non c’è niente, non c’è assolutamente niente di tutto ciò: nè uno Starbucks, nè un McDonald, nè un Gucci nè un Western Union. E’ lo stesso che succede, per esempio, in Cina: ti fanno vedere Shangai e Pechino, o meglio certi quartieri selezionati di Shangai e Pechino: fateci caso, armatevi di mappa delle città: sono sempre i soliti. Bellissime, modernissime, futuristiche addirittura, queste città: te le fanno vedere da diecimila angolazioni diverse per farle sembrare ancor più grandi e imponenti, facendo credere che tutta la Cina ormai sia così. In realtà fuori da quelle 2-3 città la miseria e l’arretratezza da terzo mondo, da paese sottosviluppato, povero e ignorante continuano a esistere per il 99% della popolazione. Basta gettare un pò d fumo negli occhi ai turisti – ma anche alla gente ignorante del paese – per far credere loro che tutto funziona e tutto è agli standard che ogni moderna società consumistica sull stile occidentale deve avere. Spesso maledico il fatto di essere un occidentale per il mio fatto di essere un modello, un punto di riferimento da parte di popoli che sono disposti a fare sacrifici enormi pur di apparire, pur di illudersi di vivere una vita “all’occidentale” come la mia. Mi sento colpevole, colpevole di dare il cattivo esempio.

Nella prima banca ci ho passato quasi due ore: sono entrato, una guardia bassa e tarchiata che pensava di essere il direttore mi ha dato i documenti che mi servivano, ha ordinato a un cassiere di darmi una penna, mi ha controllato personalmente il portafogli (per trovarmi, che gentile, la mia carta di identità senza che io facessi la fatica di trovarmela da sola), mi ha detto cosa devo fare e mi ha detto dove sedere. Non contento si è messo a curiosare tra tutti i miei fogli che avevo nel giubbotto e nel portafogli, casomai avessi avuto bisogno di qualche altro servizio da parte sua. Si comportava da gentile ma anche da duro allo stesso tempo. Cortese, affabile ma sempre con lo sguardo duro di chi ti tiene costantemente sott’occhio, che nota tutto quello che hai addosso, che prende la tua roba senza neanche chiedere permesso per esaminarla e guardarti in faccia per capire che tipo sei, che pensa di essere il direttore della banca dando ordini e disposizioni soltanto perchè ha una pistola legata al fianco.
Questa gente, di solito, così dura, ha anche una natura insolitamente gentile e servile con i ricconi e la gente potente. Entravano in continuazione tipi loschi e nervosi, guardia del corpo immancabilmente appresso e borsoni pieni di soldi. Erano talmente pieni di soldi, questa gente, che se li dovevano anche staccare dal corpo: legati alle caviglie, ai fianchi, tutto attorno alla pancia, sotto le ascelle, tiravano fuori mazzi e mazzi di euro, dollari, sterline da tutto il corpo. Sembravano i terroristi di Al Qaeda pronti a farsi saltare in aria pieni di esplosivo tutto legato attorno al corpo: solo che invece di tritolo, questi erano imbottiti di soldi ed erano invariabilmente nervosi e sudaticci.
La guardia, appena entrava uno di loro, si prodigava in salamelecchi e inchini, li scortava direttamente agli sportelli e, spostando con modi duri e scortesi i clienti che già si stavano facendo servire, intimava al commesso di dare la precedenza a queste importantissime personalità, che a me sembravano più mafiosi traffichini, corrieri del riciclaggio di denaro che stimati uomini d’affari.
Era una cosa incredibile: mai visto così tanto zelo da parte delle guardie!

Intanto la mia pratica era ancora li: una volta che la guardia aveva controllato ben bene se io avessi riempito tutto, il foglio era stato passato a una commessa: una fotocopia e buttato li ad aspettare mentre lei era tornata tranquillamente a svolgere gli affari sua.
Erano passate ormai 2 ore e nessuno sembrava interessarsi a me: la commessa non rispondeva alle mie domande e un’altra li accanto, fredda come un ghiacciolo e completamente inespressiva, mi diceva di aspettare.
La guardia era sempre li, fissa sulla porta a gambe divaricate, mani serrate alla cintura e pistola bella in vita.
Adesso era il turno di una bella donna, alta e altera e il nostro eroe armato si prodiga in un inchino ancora più profondo. Le si avvicina, la prende sottobraccio e le chiede cosa deve fare. La signora deve ritirare dei soldi allo sportello automatico: niente di più semplice! La guardia si prende carico del problema, e, tenendola sempre sottobraccio, le spiega che bottoni deve pigiare, facendo alcuni gesti comici per farle vedere quali non deve pigiare. Ridendo e facendo il simpaticone le dava anche alcune pacchette sulla spalla. Una volta finita l’operazione si è premurato di chiederle se serviva altro: nient’altro, arrivederci. Uscita dalla banca, il nostro zelante Rambo in divisa blu, ormai soddisfatto e armato di un bellissimo sorriso si avvicina a un cliente, un omone grosso e commentano insieme le forme della donna. Anche un deficente, pur non parlando turco, avrebbe capito che stavano parlando del culo.

Finalmente, passata un’altra oretta vengo a sapere che il terminale non funziona e quindi sarei dovuto andare in un’altra banca. Ci sono volute tre ore per avvertirmi, quando solitamente in qualsiasi ufficio Western Union di Prato ci vogliono 2 minuti per fare tutto.

Vado all’unica altra banca in zona che disponeva di tale servizio: ovviamente anch’essa in Yerebatan, a pochi passi.
Anche qui – come in tutti i negozi della via – una guardia armata di mitraglietta, alta e dal viso duro e antipatico. Non mi guarda bene ma io lascio stare.
Nelle due ore che ho passato in questa nuova banca, sempre la solita storia: la guardia ti dice cosa devi fare, prende il portafoglio e comincia a svuotarlo di tutto con fare indifferente, controlla i tuoi documenti, poi finalmente prende il tuo modulo debitamente compilato e lo butta li, dimenticato da tutto o da tutti finchè i commessi non hanno nient’altro di meglio da fare.

In queste due ore ho visto la guardia che si metteva in strada a gambe divaricate con la pistola in mano ogni volta che passava una donna. Sembrava Rambo e assumeva le posizioni più strane, sempre con la pistola in mano: se la trastullava, a volte faceva esercizi di estrazione o roteazione, a volte persino la accarezzava e la leccava come se fosse un membro maschile, si sistemava il basco in testa, assumeva un tono duro, si gonfiava il petto...cercava in tutti i modi di farsi vedere dalle donne e di risultare maschio e potente: si metteva proprio sull’uscio della porta ad aspettare che passasse qualcuna per piombare a quel punto in strada e dare spettacolo un’altra volta...la guardia armata di mitraglietta nel negozio di fronte cercava di imitarlo, e anche lui si metteva in strada a fare il buffone. Chissà da quanto tempo quei due cretini sono in competizione così per accaparrarsi l’attenzione di una donna: se un giorno gli dovesse partire un colpo da quelle pistole maledette, il morto ci scappa di sicuro. Ma sono solo inutili dettagli quando la posta in gioco è farsi belli agli occhi di una donna.
Salamelecchi, battutine cordiali e immediata presa di confidenza anche qui ogni volta che una cliente entrava. Finalmente, dopo sole 2 ore sono riuscito a ottenere i miei soldi e me ne sono andato via.

Ho fatto due passi e ancora prima uscivo fuori per fumarmi una sigaretta, per vedere un pò di gente, questa gente. Donne tradizionali con il burka camminavano ridendo timidamente e abbassando il capo. Donne moderne, giovani, emancipate camminavano a testa alta, sprezzanti e superbe, con lo sguardo fisso nel vuoto, all’inseguimento di un obiettivo invisibile per noi comuni mortali. La tipa all’agenzia di viaggio dove avevo preso il biglietto per Teheran parlava un inglese correttissimo ma non mi ha lasciato una impressione più calda del ghiaccio. Distaccata e impersonale come distaccate e impersonali erano le moderne ed efficienti commesse delle 2 inefficienti banche dove sono andato. Cosa è questo paese? Cosa sta succedendo a questa società?
Sembra che tutti vogliano giocare ad essere moderni ed europei in un paese dove ancora i servizi base funzionano male e in modo clientelare, dove dietro la facciata di consumismo, opulenza e lusso ci sono ancora militari armati pronti a sventare l’ennesimo attentato, traffichini ricoperti di denaro che sudano e temono per la loro vita, ma sopratutto un’aurea ancora così pesantemente marcata di maschilismo, di arretratezza sociale, di misoginia che neanche in Iran avrei visto, anzi.
Dei 3 giorni che ho passato in Turchia mi è rimasta solo questa immagine ostile di maschi perennemente arrapati e opprimenti, ossessivi, col solo pensiero della fregna in testa, dove tutti i discorsi girano e ruotano solo attorno all’arte di scopare, dove anche la fede viene mescolata col mestruo, dove si gioca impunemente a fare i Rambo mitraglietta alla mano per farsi belli e machi agli occhi delle ragazze. Ma in che mondo siamo? Sembra ancora di essere nel medioevo dove il maschio deve essere virile, potente, sessualmente dominante e narcisista. Dove le donne non sono altro che corpi, carne che cammina, oggetti che vanno conquistati con la vanità e l’esibizionismo.
In qualunque caso, in qualunque situazione, mi sono sembrate tutte vittime di una società profondamente maschilista che, come tali hanno dovuto imparare ed affinare col tempo l’arte del dover sopravvivere: non guardando in faccia nessuno, cercando di farsi gli affari propri. Vittime di una società ancora troppo maschilista, fallocratica, arretrata.
Ho visto donne tradizionali camminare a testa bassa, che giravano lo sguardo impaurite non appena qualcuno – per sbaglio o per scelta – le guardava negli occhi. Ho visto donne più moderne, senza burka camminare sprezzanti, veloci e altezzose senza guardare in faccia nessuno, perse in sguardi allucinati e determinatissimi. Ho visto donne fredde come il ghiaccio ed efficienti, semplici macchinette professionali in luoghi dove di professionale non c’era neanche il metal detector all’entrata, le donne che dovrebbero rappresentare il nuovo volto efficiente e professionale dell’Europa che deve entrare in Turchia.

Ma non ho visto neanche una donna la sera, dopo cena, camminare da sola per le strade della città.
“Hanno paura dei maschi” mi diceva Riccardo mentre, seduti a un ristorantino all’aperto, ci sorseggiavamo un tè accanto a una massa di ubriachi che si stavano azzuffando tra loro. “O se ne devono stare in casa ad aspettare il loro uomo”.



Bediraya

 
Capitan America è stato chiamato dalla polizia di Istambul per risolvere un caso molto difficile: assieme al suo collega El Santo, il famoso lottatore messicano di Catch devono fermare una banda di criminali capeggiata da un Uomo Ragno folle, sadico e allucinato che si diverte a devastare la faccia di povere donne con eliche di motoscafo o strangolarle coi sifoni della doccia. Ma i nostri eroi, un pò appanzati e con vistosi baffoni e basette molto mediterranee riusciranno nell'impresa a suon di colpi di Kung Fu e duelli in stile Far West.
Questa, a grandi linee, è la trama di uno dei più deliranti e impensabili film che la cinematografia turca sfornava a pieno regime negli anni 70. Pochi set più in là altri baldi giovanotti mediorientali affrontavano enormi Godzilla o ridicoli alieni saltellanti fatti di pezza, improvvisati Rambo allenati ad Ankara combattevano sporche guerre contro curdi e Iracheni agli ordini di un qualsiasi Pascià Trautman ottomano mentre svenevoli ragazzotte polpose, avide e spietate dark lady, disinibite signorine sfoggiavano incredibili e vertiginose acconciature, esibivano cosce e seni, fumavano, bevevano e godevano a più non posso in quell'incredibile fermento culturale che era la Turchia negli anni '70.
Cose turche, appunto, una realtà immaginifica e incredibile che poteva essere possibile solo nella Turchia degli anni '70, povera, misteriosa ma sicuramente non arretrata: la Turchia è sempre stata al passo coi tempi, con l'evoluzione dei gusti e degli stili. Ma semplicemente piuttosto che adeguarsi ha sempre saputo riadattare e personalizzare, con un atteggiamento quasi snobistico e di aristocratico isolamento culturale rispetto ai due continenti di cui ne è allo stesso tempo ultimo baluardo e prima propaggine. Sicuramente diversa e conscia di essere l'unico, vero ponte tra Europa e Asia, padrona di poter gestire, assorbire, imitare e rielaborare le culture e l'immagine dei due continenti in un assurdo mix unicamente turco.
Un incrocio di culture e storie come sempre è stata la Turchia e Istambul in particolare, una delle 7 capitali della cultura globale dove da millenni si incrociano racconti e storie di mondi diversi..
Nei film fatti fino a pochi anni fa, i gangster vestono alla francese ma guidano scassatissime macchine mediorientali sugli ancora sterrati sentieri collinari di una Fenehrbace ancora dominata dalla campagna, nelle città la borghesia vive in elegantissimi appartamenti dallo stile americano ma prende ancora a manate in faccia languide femme fatales che soccombono al loro fascino così mascolino, mentre nelle campagne dove dominano cani randagi, contadini che tirano ancora il carretto a mano e vecchie intabarrate nei secolari veli della vergogna, loschi criminali progettano fantascientifici piani per dominare il mondo. Quel cinema popolare, così ingenuo e fantasioso però riusciva a penetrare nelle fasce più semplici e povere della popolazione, facendole ridere o spaventare, emozionandole, commuovendole: era un cinema semplice che però rifletteva, in qualche modo la realtà, tra villaggi fangosi e quartieri di Istambul in piena decadenza, tra mafiosi di porto e scassatissime strade non asfaltate. Partiva dalla realtà, forse povera e non bella a vedersi e lo spettatore si rispecchiava in quelle case di campagna fatte d fango e mattoni o lungo le trafficatissime e polverosissime stade intasate di Istambul, tra gli angoli oscuri sotto il vecchio Galata Bridge o alle prese con capi e padroni arroganti vestiti in giacchetta, fez e baffetto.
Mi immaginavo ancora la Turchia così, magari accompagnata da una dolce nenia orientaleggiante mentre sorseggio un çay in qualche losca taverna sul Bosforo, ammirando gli sguardi penetranti di donne dagli occhi truccatissimi, le uniche parti del corpo alle quali possono dedicare tutte le cure e le attenzioni, e immaginando le bellezze che si celano sotto quei magnifici veli finemente decorati. Immaginavo un traffico ai limiti della resistenza psicofisica tra macchine costruite ancora secondo i canoni di 40 anni fa e polvere dappertutto, immaginavo loschi anfratti dove potevano drogarmi per poi ritrovarmi il giorno dopo a bordo di una nave diretta per chissà dove, immaginavo una Istambul in qualche modo decadente e languida, un pò dimessa e dotata di quel fascino misterioso che secoli di incroci tra oriente e occidente le hanno lasciato come segno. E immaginavo Capitan America o Rambo, baffoni e un pò appanzati che venivano a liberarmi dagli iraniani cattivi.
Istambul è una città multiforme e multiculturale dove la storia si sovrappone alla storia nei piu incredibili accostamenti che solo il tempo riesce a conciliare: la zona di Sultanhamet è quella dominata dalle 5 famose moschee, con Aya Sofia e la Mochea Blu, il complesso del Topkapi e gli altoparlanti che regolarmente 4 volte al giorno da sempre annunciano il momento della preghiera per migliaia di fedeli. Ma questa parte di Istambul è la ancor più vecchia Costantinopoli, la Costantinopoli romana baluardo e difesa degli ultimi valori cristiani e occidentali contro l'avanzata dell'Islam: come ha saputo il tempo rimescolare così radicalmente la fisionomia di questa zona. Si respira il senso profondo e religioso, imponente e severo dell'Islam sapendo che quelle mura, quegli acquedotti furono costruiti da uno degli Imperatori cristiani piu religiosi e ortodossi che la cultura occidentale abbia mai partorito. Ma adesso qui è l'Islam, forse un pò turistico e meno severo, dove i germi del libertinaggio si propagano sempre di più ma la zona di Sultanhament adesso è Islam.
Di qua, oltre il Galata Bridge si respira quell'aria Bohemien e cultural-chic che ha fatto di Istambul quella che un tempo definivano "la Parigi d'Oriente": non è un caso che infatti, proprio qui terminavano i binari dell'Orient Express, la prima vera linea ferroviaria intercontinentale che collegava le due più famose capitali dell'arte e della cultura, mai come qui nella zona di Pera e Taksim così simili per spirito, creatività, lusso altoborghese e plateale sfoggio di esuberanza creativa. E tra una ceramica inneggiante a quadri di Degas o ispirata ai paesaggi naturali francesi, spunta l'ennesima testimonianza di un'altra presenza straniera, di un'altra influenza culturale che qui aveva trovato una buona occasione di commercio e di prosperità: la torre genovese di Galata. Uno dei simboli più famosi della città è in realtà...genovese! A quanto siamo di già? Genovesi, francesi, ottomani, arabi, greci ovviamente, antichi romani, russi, persiani, la lingua tedesca è diffusissima per ovvie ragioni....c'è di tutto e manca sicuramente qualcosa.
e di la, ancora, c'è l'Asia che sembra tutto tranne che Asia: Kadikoy, ormai già oltre il cartello giallo "Welcome to Asia" che spunta di là dal meraviglioso ponte illuminato che di notte cambia colore in continuazione è la parte più Europea che ci possa essere, con i suoi viali moderni e lo shopping sfrenato, i negozi di musica e le librerie, la relativa assenza di "anticaglie" che domina invece i 7 colli posti nel Vecchio Continente. I ruoli e le parti si scambiano e si mescolano ancora una volta, in questo incredibile mosaico culturale e storico in cui a ogni passo sembra di essere ora a Roma, ora a Milano, ora a Parigi, ora a Sarajevo ma quasi mai a Istambul perchè non si riesce più a capire quale sia, a questo punto, la vera essenza di Istambul: o forse è proprio questo suo essere un non-luogo, un punto di incontro di due - e forse più mondi - che fa di Istambul questo incredibile crogiolo di emozioni?

Io mi immaginavo più Asia, più mistero, più nenie, forse anche più povertà...sono rimasto deluso nel sapere che il ponte di Galata dove ogni giorno centinaia di pescatori aspettano con pazienza di tirare su qualche pesce tra i milioni di meduse che infestano l'acqua è vecchio di soli 17 anni: al suo posto prima, esisteva un ponte sorretto da barconi in legno e gli elegantissimi, chic (ma pessimi in quanto a qualità del cibo) ristoranti che ora fungono da romantico luogo per scambiarsi qualche smanceria sotto una languida mezzaluna turca, un tempo non lontano, anzi molto, dannatamente vicino, erano i sordidi ritrovi di gangster, malfattori, personaggi ambigui e misteriosi, erano luoghi umidi, bui, sporchi e puzzolenti di pesce e di fumo di sigarette. Se fosse stato 50 anni fa mi sarei messo in pace, ma sapere che soltanto fino a poco meno di 20 anni fa, fino a tutti gli anni '90 Istambul era una città in piena decadenza, fa rabbia. Fa rabbia sapere che nella commercialissima e sorridente avenue che porta a Taksim un tempo c'erano solo serrande tirate giù e palazzi dalle mura marce che cadevano a pezzi. Forse fino a pochi anni fa si poteva ancora respirare quel sapore di Asia, quel sapore di terra del tutto particolare tra due mondi che assorbiva e rielaborava in un gusto tutto unico le influenze di culture così diverse.
Oggi Istambul con tutte le sue vie ritirate a nuovo, con i ponti rifatti, con le vetrine luccicanti di negozi moderni e un poco presuntuosi, sembra una città come tante, forse non nell'architettura ma sicuramente nell'atmosfera e nella gente.
I giovani sembrano i giovani di qualsiasi città europea: basterebbe chiudere gli occhi e non sapere di essere a Istambul per pensare di essere in una qualsiasi Parigi o Berlino o Londra. In questo, forse, siamo ingannati anche dal fatto che mai come i turchi un popolo può assumere una così incredibilmente variegata gamma di aspetti fisici: biondi con occhi azzurri o verdi, classici volti mediterranei da machi napoletani o siciliani, volti seri e duri di discendenza araba o antichi lineamenti caucasici, sguardi tristi da camionista e volti belli tipici di qualsiasi benestante società occidentale. Il benessere anche qui porta una omologazione molto forte: i volti belli potrebbero essere benissimo volti di middle class americane o perfino svedesi, i volti un pò più tradizionali e dal gusto antico potrebbero essere i volti di qualsiasi immigrato in una capitale europea. Istambul è tutto e non è se stessa: è la sua gente ma è un milione di origini diverse allo stesso tempo. E' un non-luogo dove purtroppo il benessere e il capitalismo stanno distruggendo quanto di particolare questa città possa offrire: i negozi nel corso sono uguali ai negozi di Parigi o Londra, i giovanotti artisti sono identici e parassitari come gli artisti che infestano qualsiasi altra città occidentale: bellocci e vestiti all'ultima moda artistica, con basco e barbetta, allegri con quei sorrisi che dovrebbero mettere buonumore e a me mettono soltanto infinita rabbia, divertiti e poco divertenti. Uguali agli artisti di qualsiasi altro paese europeo tanto che non si capisce, o forse non me ne sono neanche mai curato di chiedermelo, se fossero stati turchi o fannulloni venuti da altre nazioni. Molto meglio quel povero nonno cieco che si faceva reggere il microfono da suo nipote: era una scena tenerissima per una delle voci più eomzionanti e sofferte che io abbia mai sentito.
Le notti sono uguali a una grande città europea qualsiasi: discoteche, piani bar, birre e alcool, calcio sui megaschermi, locali di lusso, ore piccole, notti brave, minigonne, occhiali da sole, edonismo sfoggiato in faccia a tutti, musica techno sempre dannatamente uguale a se stessa a qualsiasi latitudine, boccali che si alzano e urla che si confondono e impastano sempre di più coll'aumentare del ritmo della notte.
Mi chiedo dove sia la Istambul misteriosa, languida, particolare per lo meno che mi immaginavo da ragazzo attraverso i film dell'Uomo Rano assassino o tei terrbili contadini curdi baffoni che inseguivano un Rambo un pò impacciato, mi chiedo come mai anche a viaggiare come un pazzo per i saliscendi della città le macchine non mi abbiano mai urtato e siano invece li tutte belle ordinatine in una fila quasi impeccabile, che procedono a velocità da far venire l'orchite e i guidatori sembrano tutti accorti e premurosi bravi ragazzi che si sono messi in testa l'insana idea di rispettare gli altri utenti della strada. Mi chiedo dove siano le ragazze col velo quando la notte tutti i veli cadono e non solo quelli, dove sia l'Islam se le ragazze puzzano di alcool e fumo e la Efes scorre a fiumi incredibili in ogni elegante piano bar della città.
Istambul si è annacquata, anzi si è imbirrata come una qualsiasi città cultural-capitalista occidentale. Ha raggiunto il suo scopo, di essere al pari, dannatamente al pari e quindi uguale a qualsiasi altra capitale del benessere occidentale. Non ha più bisogno di rielaborare miti e immagini dell'occidente in una salsa piccante e speziata tipicamente turca: i modelli occidentali sono qui ormai di casa e contemporanei alle evoluzioni che subiscono in un qualsiasi altro paese che si chiami Italia o Germania o Francia...le magliette dei calciatori sono belle e lucenti come quelle di una qualsiasi Juventus o un Real Madrid, le macchine sono i modelli piu alla moda e sono tutti luccicanti e non ammaccati come un tempo, i jeans, le camicie, i tagli di capelli sono perfettamente in linea con i trend dettati da un qualsiasi MTV o canale satellitare in lingua inglese. La rincorsa è finita, la rielaborazione di immagini e culture europee ed asiatiche in tipica salsa turca ormai ha perso il suo sapore speziato e piccante: gli preferiamo il gusto neutro di un qualsiasi McDonald's o Burger King di una turisticissima Taksim Square qualsiasi.
Seduta su un muricciolo di pietra una ragazzina in minigonna armeggia col suo nuovo Ipod, accavallando due cosce fasciate da eroticissime calze a rete e ciondolando catenine e collanine qualsiasi come una qualsiasi ragazzetta medio borghese di una qualsiasi società europea.
Perfino la polizia è meno cattiva di quello che speravo: anzi, in realtà sono stati tutti gentilissimi con me anche se un pò meno lo sono stati con alcuni tifosi del Kasim Pasa. Li, allo Stadio (le nuove cattedrali simbolo della cultura occidentale) ho visto, per un attimo, l'Asia: l'Asia cattiva del potere sulla povera gente, l'Asia spietata di chi ha il comando e delle masse che scalciano e premono. Ma è stato un attimo, intenso, forte, bello, ma solo un attimo.
Ma allora, esiste veramente una Istambul che sia ancora pura, incontaminata, che non presenti questo annacquamento culturale che la rende sempre più simile ad un qualsiasi altro non-luogo del capitalismo occidentale? E se esiste, dove va cercata?
Forse nelle vie brutte e sporche dalle parti di Kasim Pasa, tra palazzi macilenti e bambini scarponi che provano a tirare maldestri calci a un pallone, tra simpatici mafiosi che vivono tutto il giorno in casa sporti alla finestra e che mostrano con orgolio una pistola (vera? son convinto di si) a un "amico mafioso" italiano, ragazzette bruttine che giocano con la corda su queste discese fangose e umidicce di labirintici vicoli pieni di puttane e nullafacenti. Vecchietti ringobbiti che portano a spasso un pò di Islam, vecchie matrone che si tirano su il velo e guardano con diffidenza. Ecco, si, forse qualcosa si trova.
O forse laggiù al molo di Kadikoy dove una piccola, bellissima zingarella vende fiori tutto il giorno: per lei non ci sono McDonalds o serate brave ai disco bar piu esclusivi della città, non ci sono neanche lettori Ipod alla moda o narghilè fumati in compagnia di giovani, ricchi artisti europei, non c'è neanche il fascino e la consapevolezza di essere in una città dove si respira cristianesimo e islamismo, siria, armenia, grecia, genova, roma, parigi e berlino, vecchio e nuovo, nuova ricchezza e macchinone di marca. Lei deve urlare tutto il giorno una sola parola, perchè è quello che le potrà permettere di portare a casa il pranzo con la cena, si sposterà soltanto dall'entrata frontale dell'imbarco alla piazza davanti che da sulla strada. "Bediraya, bediraya, bediraya" saranno le uniche cose che dovrà dire tutto il giorno e tutto il giorno dovrà trascinare con se la sua piccola cassa di fiori. E assieme a lei c'è un vecchino che vende i biglietti della lotteria e poi un altro che vende non si sa bene cosa, e poi altri zingari che vendono altri fiori...ed è questo mondo povero, ignorato, inosservato da tutti che ha contribuito al benessere di quei molti giovanotti che sera dopo sera fanno cadere quegli ultimi tabù culturali che forse un tempo rappresentavano il fascino proibito della città: qui ci vedo l'Asia, per fortuna. Quell'Asia povera che ancora si deve arrabattare con seriosissima dignità, con sguardi duri che meritano solo rispetto e un breve cenno con la testa. L'Asia che soffre, lotta e si fa un culo così dalla mattina alla sera incurante dei sorrisi sempre più ebeti di maschi benestanti sempre più effemminati ed eterei. Piove e si continua a vociare sempre la solita parola, fa caldo e si compiono sempre i soliti gesti: si incrocia uno sguardo e non si può sorridere ance se lo si vorrebbe. Qui ho trovato tutta la dignità antica dell'Asia mentre sempre più boccali di birra si alzano la notte e sempre più veli cadono: ma per qualcuno Istambul continua e continuerà ad essere quell'unica parola, quell'unico tragitto, quell'unico gesto che li ha accompagnati e li accompagnerà per tutta la vita. La mia piccola Bediraya è ancora laggiù e sono sicuro che quando tornerò sarà sempre troppo tardi per regalarle una speranza.
L'Uomo Ragno non è più un sadico pazzo assassino e si comporta ormai come un bravo ragazzo della periferia benestante californiana, se vogliamo sapere cosa deve fare Capitan America basta chiedere a New York e pochi minuti dopo si adeguerà con patriottico senso del dovere anche in Turchia: El Santo ormai non se lo ricorda più nessuno.
Eppure era una salsa turca che funzionava, una salsa di cui oggi non se ne trova più il sapore, se non in piccoli angoli nascosti della città, piccolissimi, quasi impercettibili ormai. Dettagli. Come la Turka Cola...provatela a cercarla e non la troverete più da nessuna parte. La Coca Cola ha vinto anche qui.

 

sabato 2 giugno 2012

Apocalypse domani

La strada che corre da Delhi ad Agra è lunga e diritta. Appena lasciata l'immensa megalopoli, calda, umida, appiccicosa, sporca e contraddittoria come più di tante altre megalopoli asiatiche, la strada corre lungo una striscia continua di verde, polvere e merda. File di baobab e vegetazione tropicale cominciano ad affollare il panorama, alternandosi a campi riarsi dal sole martellante e bassa vegetazione dove vivono a migliaia scimmie, elefanti, cani, qualche vacca sacra ma non tante e soprattutto tanta, tantissima gente, che affolla ogni angolo del paesaggio. Gente perlopiù che si trascina stanca e indolente nelle loro lunghe tonache bianche, morbide, quasi flaccide, con passo lento e assolutamente non ansioso: si trascinano fino ad una baracca per sorseggiare una coca cola e starsene li seduti a non fare niente e rimirare il traffico della strada, caotica, tra polvere, sabbia, smog, puzzo di marcio, spazzatura, caldo asfissiante, merde di animali e scimmie che saltellano, venditori di tutto che vivono letteralmente sulla strada, tra macchina e macchina che passa.

Questo è il ricordo dell'India che ho, in una caldissima (e quando mai il contrario?) mattina di novembre mentre cercavo di raggiungere il Nepal. Ero arrivato la notte prima - quando ? - proveniente da Teheran (dove sono stato ospite dalla mamma di un ragazzo conosciuto sull'autobus da Istanbul) a Delhi: una New Delhi fin da subito caldissima ed appiccicosa, inquietante nel suo caldo puzzolente e immobile, in una notte da film postatomico, dove i soldati spuntavano dapperttutto sui tetti dei palazzi di fronte all'aeroporto, trincee sulla strada, fucili e mitra puntati ovunque pronti per scatenare un inferno di fuoco. E un inferno di fuoco  - a fight, come aveva detto un passate - ci sarebbe stato proprio un paio di giorni dopo alla stazione di Agra.

L'India ti accoglie subito così, con una sfrontata ostilità, dove niente e nessuno ti dicono benvenuto ma dove sei subito sbattuto faccia a faccia contro una realtà disperata, dura, ostile, drammatica, tragica. Soldati, caldo opprimente, una notte strana e irreale dove non mi ricordo come sono montato su un autobus verso il centro di Delhi, verso la stazione centrale dove avrei dovuto vedere come attraversare tutto l'Uttar Pradesh, India settentrionale ed andare verso Est, verso il confine meridionale col Nepal.

L'India accoglie con indolenza e distacco, silenzio, spettri che cominciano a spuntare agli angoli delle strade e poi sempre via via sempre più a mucchi man mano che la grande città comincia. Tra scheletri di palazzi o abitazioni dove mancano sempre qualche parete, Delhi si presenta come una città spettrale e disperata. Cumuli di esseri umani ammucchiati uno sull'altro dormono - o semplicemente sopravvivono - sotto le logge dei palazzi, in quei palazzi dove ai primi piani pareti sventrate rivelano stanze bruttissime prive assolutamente di tutto, dove l'unico arredamento veramente presente sono solo corpi di gente ammassata. Gente che non capisci se dorme o semplicemente non ha le forse per fare altro, gente buttata li senza un perchè che si lascia così per rassegnazione, per volere divino, per destino e reincarnazione di questa corrente vita. Ragazzini che giocano nudi - come nudi sono moltissimi, semplicemente perchè i pochi stracci logori che hanno indossato tutta la vita ormai sono andati distrutti, persi col tempo - montagne di immondizia dai quali rotolano divertiti e ti chiedi se magari c'è qualche corpo seppellito sotto quello schifo. E ti accorgi che veramente c'è sempre qualcuno buttato li a dormire...strade lunari, da città fantasma e scenario postatomico dove l'autobus ha dovuto cambiare strada due o tre volte perchè l'esecito aveva posto delle sbarre mobili per deviare il traffico da quelle che - ogni notte, sempre diverse - possono risultare le zone più ad alto rischio per chi vi passa.

Piano piano ci siam ritrovati in pochi passeggeri ed io a fare domande inutili all'autista, incerto o no se meravigliarmi di tutto questo, scandalizzarmi, o semplicemente cercando di far finta di niente.
Mi ha portato fino alla stazione, ormai aveva finito il turno e il viaggio in più l'ho pagato giusto due sigarette e una lungha chiacchierata sul bus, fumando e tenendo le porte aperte per il gran caldo asfissiante. In uno spiazzo dietro la stazione una folla incredibile e sempre in movimento camminava sopra pozze di piscio e merda, tra verdure spappolate dappertutto e resti di qualsiasi cosa, bottigliette, lattine, cartoni, paglia e fango dappertutto. Niente di nuovo ma mi sembrava molto più marcio che da tante altre parti dell'Asia, forse sarà stato per il gran caldo, ma mi sembrava tutto molto più lezzo ed asfissiante. Forse solo a Bozhou, nello Anhui, Cina, c'era un simile marciume ma non c'era quell'afa opprimente che rendeva l'aria così altrettanto irrespirabile e pesante. Eppure tutto ciò affascinava, attirava seppur l'autista mi consigliava di stare in guardia appena sarei uscito. Criminali, assassini, ladri, puttane, barboni, appestati, polizia, guru accattoni, ognuno avrebbe potuto rubarmi il portafogli o subito condotto in situazioni inusuali per noi occidentali. Non avevo gran paura ma ovviamente era un posto nuovo, una mentalità nuova, era la prima volta che vedevo l'India e quindi non sapevo ancora come comportarmi con la gente. Fossi stato in Cina avrei avuto molto meno timore di arrivare in piena notte con un autobus in un posto sconosciuto. Ma dell'India ancora non sapevo niente sebbene mi scorrevano nella mente immagini di miserie incredibili - già viste e per sfortuna già anche confermate in gran parte da quello che avevo osservato lungo strada, dal finestrino dell'autobus, ma pensavo anche alla lebbra, la peste, colera, tifo, malattie infettive, gente che muore ai bordi della strada, barboni mutilati che tendono la mano in continuazione, corpi devastati da piaghe che ti toccano e ti guardano....questa sarebbe stata l'India che avrei visto nei giorni successivi, nel mio lungo viaggio verso Est, un lungo viaggio verso i confini meridionali di Nepal e Buthan, fin quasi a quella strettissima fascia di terra, il Collo di Gallina che prima di buttare nel triangolo dell'Annam, ai confini con la Birmania, separa di pochissimo i grandi regni tibetani dell'Himalaya al caldissimo e iperaffollato Bangladesh, una regione che non osavo neppure pensare quanto fosse povera e disperata se mi dicevano che l'India in confronto era un paradiso.
In una notte in preda a vero senso di shock, quasi ipnotizzato e incapace di farmi una ragione che ero già arrivato fin li, riesco a barattare il mio giacchetto di pelle falso della D&G col biglietto dell'autobus + albergo per Agra + biglietto del treno da Agra a Gorakhpur, con una agenzia loschissima dalla quale in qualche modo un tassista mi aveva portato. A tutt'oggi non so se mi hanno fregato o mi hanno detto la verità ma sembra che per viaggiare sui treni in India devi comprare il biglietto con vari giorni di anticipo, sopratutto per le lunghe distanze (io dovevo attraversare tutto l'Uttar Pradesh da Ovest a Est) ma sopratutto ero capitato proprio durante un periodo di festival importantissimo e milioni di indiani avevano già preso d'assalto e sovraffollato tutti i treni disponibili. La soluzione migliore allora sarebbe stata arrivare fino ad Agra (che io non sapevo neanche cosa fosse) e da prendere un treno qualsiasi per arrivare fino a Gorakhpur, in un viaggio di circa due giorni e mezzo. Forse era tutta una stronzata per spillare soldi a un turista solitario, gli indiani sembrano solo pensare ai soldi e fare affari, perlomeno coloro che non muoiono di fame ai bordi delle strade, e hanno facce spesso così poco raccomandabili che pensi sempre che te lo stiano tirando nel culo. Ma non c'era altra soluzione. Li fuori dall'agenzia, il cui proprietario era un tipo giovane, affabile, cordiale - mi ha offerto te, biscotti, sigarette - c'era un tipo che sembrava capitato li per caso ma in realtà forse era li apposta che, guarda caso, comincia un discorso che va a finire sull'arte e sulla cultura indiana. Aveva roba da vendermi o da piazzarmi, con la solita frase "eh ma se torni in Italia possiamo fare affari insieme, mi aiuti a piazzare questi oggetti, possiamo fare tanti soldi insieme..."
Ragazzi questa è l'Asia, dove tutti son mercanti e tutti son furbi e tutti pensano di aver gioco facile con i turisti sprovveduti. Ci ho fumato delle sigarette e fatto una bella chiacchierata ma son rimasto vago sugli oggetti che voleva vendere, promettendogli che al ritorno in Italia ci avrei pensato. Poi mi son comprato il biglietto per arrivare ad Agra, con cameruccia di albergo compresa e taxi fino a la. Sono circa 200 o 300 km, non lo so...ho pagato col giubbotto di pelle falso della D&G: non avevo soldi e lui aveva messo gl occhi sul mio giubbotto.

"Io devo andare in Nepal ma non ho una lira" dicevo io.

"Ed io devo andare sull'Himalaya e non ho un giubbotto" diceva lui.

Alla fine ho pagato tipo un costo di 30 euro (furto!) con un giubbotto comprato 2 anni prima, nel 2008 a Yanjiao, periferia di Pechino, pagato 12 euro e tutto ormai rotto e pieno di buchi nella fodera. A conti fatti ho attraversato e stazionato per 6 giorni in India con 2 euro in tasca. Per la precisione avevo 1,80 euro, portati dietro da Teheran. A Gorakhpur, pochi km dal confine sud-orientale col Nepal, ci sono arrivato con 10 centesimi in tasca e nient'altro.

"Se stai qui in India potresti fare ottimi affari" mi diceva il tipo tutto sorridente e gentile. Eravamo entrambi soddisfatti e anche se forse lui c'aveva rimesso qualcosa, io mi son procurato il biglietto-probabile trappola per turisti - con uno scambio economicamente vantaggiosissimo anche se poi il giubbottino mi piaceva. C'erano tanti ricordi che mi ci legavano: Yanjiao, Robert l'insegnante pazzo, mio fratello, la strada commerciale....ma tanto pensavo che poi non mi sarebbe servito se andavo a sud, verso Thailandia e Malesia in seguito.

Arrivare ad Agra è una oleografia dell'India più immaginaria, quella forse anche più scontata e tipica alla quale pensiano, quando pensiamo all'India. Salgariana, tropicale, afosa, sporca, affollatissima...un traffico incredibile e totalmente fuori controllo, guidatori che si comportano esattamente all'opposto di qualsiasi guidatore occidentale, barboni e mendicati che dormono sulla striscia rialzata dello spartitraffico, saltimbanchi che spuntano all'improvviso mentre la macchina è ferma per guadagnare qualche spicciolo con la loro scimmietta ammaestrata, venditori con ceste in testa che vendono robaccia che ti tendono con la mano nera e malaticcia, altri che siedono sullo scalino in pietra di case in fango e muratura che spuntano tra uno spiazzo e l'altro del verde. Polvere e fango sempre sollevati che rendono l'aria ancor più appiccicosa e pesante, carretti che vendono Coca Cola e insegne di marche americane vecchissime dappertutto, spesso usate come pareti o sostegni per le case. Strisce di baracche e capanne su spiazzetti di terra sporchi dove bambini e animali giocano tra gente, gente che vende di tutto o non fa semplicemente niente.
Divani e poltroncine basse in velluto riccamente ricamato, sporche e logore invitano a sedersi a bere qualcosa di fresco mentre ci si cuoce sotto il sole rovente. Tavolacci traballanti sotto piccole verande e divani polverosi invitano a fermarsi ad ogni gruppetto di case lungo strada.
Un benzinaio incredibimente moderno e "pulito" in mezzo all'India ancora ancorata ai tempi di Salgari e Gunga Din, del vicerè dell'Impero e dei Rajà bianchi.

Agra ho poi scoperto essere la città - la città, vabbè, un villaggio miserabile e sudicissimo - dove c'è il Taj Mahal, il mausoleo in marmo bianco con le piscine enormi che l'imperatore nonmiricordo chi, Tamerlano forse, aveva costruito in memoria della sua moglie morta. Tanto bello, imponente e meraviglioso quanto sudicia e buttata via è la città e il parco che lo circonda, un immondezzaio a cielo aperto, una discarica dove sguazzano scimmie in branchi, paria inchiodati dalla fame al terreno e famiglie ricche e volgari che buttano via nel piu totale menefreghismo gli scarti del gelato e i cartocci di cibo. Camminare qui, in questo paesaggio ancor più tropicale ed afoso, ancor più trafficato e caotico della Delhi notturna, ancor più polveroso della strada per arrivarci, era veramente difficile a livello emotivo.
Eppure ipnotizzato mi sedevo a fumare sigarette una dopo l'altra e non potevo fare a meno di osservare questo mondo. Magari appoggiato col culo ad un muretto di mattoni sbriciolati o su un ciocco di legno circondato da spazzatura, cercando improbabili agenzie di viaggi, una ricarica per il cellulare e un Western Union per chiedere dei soldi a casa. Fino all'anno scorso non ho mai viaggiato con carta di credito e mi portavo sempre dietro soldi contanti giusti per arrivare da qui a la, poi me ne facevo mandare con trasferimento elettronico altri dall'Italia per farmeli bastare qualche altra settimana.

Fatto sta che il pomeriggio tardi ad Agra mi ero trovato con solo 1,80 euro in tasca e niente altro, avevo lasciato l'Iran senza una lira. Gorakhpur era a circa 1000 km di distanza, il Nepal era sempre più vicino ma comunque dovevo mangiare qualcosa. Con meno di 2 euro avevo molte cose da fare ma pochissime soluzioni possibili, considerando che avrei anche dovuto cercare un internet point per realizzare gran parte delle cose che dovevo fare.

In questi casi la soluzione sarebbe stata quella di sempre: farseli durare il piu a lungo possibile semplicemente cercando di perdere tempo in qualcos'altro. Girando il posto, curiosando, vedendo di ottenere informazioni o internet gratis da questo o da quel negozietto e comprando giusto le cose da mangiare che costassero meno, giusto per arrivare a fine sera e aspettare novità ed organizzare il proseguo del viaggio con le informazioni raccattate durante il giorno. La prima sera passa e il secondo giorno ad Agra è uguale al primo: dormite, camminate in stato ipnotico e sigarette. Adesso mi rimaneva poco meno che 1 euro.
Arriva la seconda sera ed era tempo di muoversi: destinazione Gorakhpur, Uttar Pradesh orientale, 1000 o 1500 km più in la. In India si campa con poco e ci si arrangia, quindi la notte alla stazione del treno mi erano bastate giusto un pacchetto di sigarette, una bottiglietta d'acqua e dei biscotti per cazzeggiare 4-5 ore in attesa del treno. I soldi erano ormai finiti. Contavo di trovare una soluzione una volta a Gorakhpur, che distava due giorni e mezzo di viaggio col treno, dove avrei dovuto pagare di tasca mia l'autobus fino a Kathmandu e il visto per il Nepal al confine.

Stazione della ferrovia di Agra, sera.
Mi ricordo gente che stava male, divorata dalla malaria o qualche altra malattia, a dormire per terra nella sala della stazione; due americane giramondo spallatissime appoggiate ad un parete e un paio di coreane fiche sulla banchina al binario 1, tra sacchi di iuta e balle di cotone, gente in su e in giu, topi, migliaia di topi.
Ho fatto una pisciata lungo la bancina, un pò lontano dalla gente. Quelli che pensavo fossero ciottoli tra i binari erano in realtà topi, centinaia di topi, a branchi...una massa nera che è scappata via da tutte le parti ai primi scrosci di piscio. Non ne ho mai visti così tanti tutti insieme.

Fuori una donna sdraiata di fianco con un sari che le copriva il volto, dormicchiava o guardava nel vuoto su un muretto bianco, tra tanta altra gente. A volte mi guardava ed io la guardavo, così tanto per far qualcosa. Due poliziotti accando chiacchieravano roteando i loro bastoni di bambù, le americane coi loro zaini uscite anche loro per fumare, tanta gente. L'indiana giovane dalla pelle nera e i grandi occhi continuava a guardarmi sempre più con piacere, ora tirando fuori la lingua e passandosi lentamente la mano sulle cosce, con movimenti lentissimi e senza fretta. Di la dalla strada baracche e bancarelle miserabili con tanta folla. Mi alzo e scopro che la bella indiana in realtà era devastata dalla lebbra e gli occhi erano pieni di pus giallo, che colava, caccole al naso e il petto seminascosto dal sari tutto piagato. Neanche il tempo di allonatarmi da quella deludentissima visione, con ribrezzo, che una folla inferocita esce urlando da un negozio che stava appena prendeno fuoco davanti a me. Urla e concitazione, gente che spara col mitra piu e piu colpi all'impazzata, una folla che osserva la scena da neanche dieci metri, un omino che con tutta tranquillità mi dice che è giusto un "fight", come ce ne sono tanti ogni sera. Saranno stati i soliti scontri tra indu e buddisti, ho pensato.

Poi finalmente il treno, una prima notte afosissima con una giovane e polposa compagna di viaggio e sua mamma che ci guardava in cagnesco, un secondo giorno passato tutto a gambe penzoloni di fuori sulla porta aperta della mia carrozza, gente sui tetti e piccole stazioni bellissime ed esotiche. Cessi stile indiano e stile europeo che vanno visti piu che decritti - ed i cessi "western style" come c'è scritto in rosso sulle porte, fanno vomitare solo ad entrarci, figuriamoci quelli "indian style"...il treno che riparte ogni volta e la gente che è ancora li sulla banchina a fumare o chiacchierare con gli amici, altri ancora li alla fontana a lavarsi i denti da 20 minuti che salgono al volo appena il treno comincia ad allontanarsi, gente sui tetti e un panorama che scorevva davanti ai miei occhi unico ed irripetibile, fatto di orrori incredibili, villaggi sommersi letteralmente dal fango e dalle paludi, due muri tra la vegetazione dove vive un babbo nudo ed un bambino che gioca in una pozza di escrementi, giovani ragazze che si lavano nude in paludi di fanghiglia, pasaggi a livello e migliaia di biciclette, scolaretti che attraversano i campi nelle loro uniformi bianche e blu all'inglese e le grosse cartelle sulle spalle,  famiglie contandine a lavoro nei campi coi bambini che giocano con le nonne, villaggi dove mi divertivo a contare quante case avevano tutti e 4 i muri: non ce ne erano mai piu di 2 o 3 in ogni posto, ed infine dopo una altra notte passata in una cuccetta asfissiante ma che mi pareva cosi comoda da rimanerci tutta la vita, ecco Gorakhpur, la miserabilissima, sporchissima, caoticissima Gorakhpur, ultima tappa in India prima di un'altra folle corsa in taxi verso il confine nepalese dove avrei passato una incredibile notte nell'ennesima miserabile locanda. Di là il Nepal: il viaggio per andare trovare Filippo era quasi compiuto, non prima di un altra allucinante, indimenticabile odissea in autobus tra il Terai, bellissimo, e i contrafforti dell'Himalaya con le sue strade maledette tra pareti a picco scoscese e strapiombi mortali, 3 rotture del motore e 12 ore di ritardo sulla tabella di marcia. Ma questa è un'altra storia.